Ageismo e abilismo in un’ottica intersezionale

“Se non moriremo all’improvviso, tutti saremo disabili un giorno”

Mara Pieri si occupa di studi sulle disabilità, queer e sulle sessualità. Nell’ambito del Master in Diversity Inclusion e Gender Equality della Fondazione Brodolini, ci ha spiegato come noi tutti siamo allo stesso tempo immersi in una rete sia di oppressioni che di privilegi.

Abilismo e ageismo ci riguardano tutt*

Il destino delle persone anziane e delle persone disabili tende ad essere collegato, perché l’invecchiamento è disabilizzante.

L’ageismo è un sistema di oppressione basato sull’età, che riguarda tutte le età, perché ogni età ha le sue aspettative socio-culturali. Esso può connotare l’esperienza tanto di persone anziane quanto di persone giovani.

L’abilismo è un sistema di oppressione basato sulla discriminazione delle persone non abili. L’abilità e la disabilità sono culturalmente e socialmente definite.

L’ideologia del benessere

Malattia, invecchiamento e disabilità sono accadimenti della vita sui quali possiamo avere un controllo per farli diventare “storie di successo”. Esiste un vero e proprio imperativo morale che ci dice che dobbiamo impegnarci a cancellare e limitare i danni dell’invecchiamento e della disabilità. E se non lo facciamo, incappiamo nella stigmatizzazione.

L’ideologia del benessere è alla base dell’industria del wellness. Addirittura esiste un ramo della gerontologia, il successful ageing, che si occupa di invecchiamento attivo e ci dice come invecchiare in buona salute, come partecipare appieno alla vita della collettività e sentirci più realizzati, e come essere più autonomi nel quotidiano e più impegnati nella società anche se siamo anziani, perché “a qualsiasi età è possibile svolgere un ruolo attivo e beneficiare di una migliore qualità di vita”. 

Un vocabolario per il fenomeno migratorio

Nell’ambito del Master in Diversity Management e Gender Equality della Fondazione Giacomo Brodolini, ho avuto modo di ascoltare Giulia Gori – esperta in migrazioni – e Monia Dardi della Fondazione Adecco per le Pari Opportunità.

Ho imparato moltissime cose che non sapevo. Ad esempio che i rifugiati, prima di poter essere considerati tali, sono dei richiedenti asilo.

La Convenzione di Ginevra stabilisce infatti i motivi di persecuzione che danno diritto alla definizione di rifugiato:

“Chiunque nel giustificato timore d’essere perseguitato per ragioni di razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un determinato gruppo sociale o per opinioni politiche, si trova fuori dello Stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto Stato; oppure chiunque, essendo apolide e trovandosi fuori del suo Stato di domicilio in seguito a tali avvenimenti, non può o, per il timore sopra indicato, non vuole ritornarvi. “

L’immaginario collettivo legato ai migranti e i luoghi comuni da sfatare

I rifugiati in Italia sono oggi 180 mila, lo 0,3% della popolazione. La maggior parte dei migranti arriva in Italia non per ragioni di lavoro, ma per il ricongiungimento con famigliari che già vivono qui. Il tasso di occupazione delle persone di origine straniera è più alto di quello delle persone di origine italiana, ma anche il tasso di disoccupazione lo è. Che cosa significa? Semplicemente che le persone di origine straniera spesso sono costrette ad adattarsi a qualsiasi tipo di lavoro, anche a costo della dignità o della rinuncia a un’equa retribuzione.

I dati ci dicono qualcosa anche sulla ricchezza che le persone di origine straniera producono e portano nel nostro paese, e cioè che il saldo fra le spese sostenute dal nostro Stato per queste persone e le entrate (ottenute fra pagamento dei permessi di soggiorno, contributi INPS e IRPEF) è attivo, e che le entrate sono considerevoli.

L’esternalizzazione delle frontiere

Diversamente da come il sensazionalismo di certa carta stampata potrebbe indurci a pensare, negli ultimi anni gli arrivi via mare sono drasticamente diminuiti a causa della esternalizzazione delle frontiere, che è in sostanza quell’insieme di accordi che l’Italia ha stipulato con i paesi stranieri di origine al fine di diminuire gli ingressi di migranti.

Un esempio di esternalizzazione delle frontiere è l’accordo con la Turchia – costato 6 miliardi – per bloccare i migranti lungo la rotta balcanica. Le terribili immagini che raffiguravano persone dagli abiti consunti e logori camminare scalze e in fila nella neve che hanno fatto il giro del mondo, ritraevano migranti lungo quella rotta costretti a tornare indietro.

Le persone transgender nel mondo del lavoro

Come appare da molta letteraura il lavoro funziona da motore di integrazione sociale , esso cioè risulta essere uno dei principali elementi che determinano la linea di confine fra integrazione ed emarginazione sociale di un individuo, e ciò sembra essere ancora più vero per le persone transgender e gender non-conforming, che, oltre a dover reperire le risorse economiche per vivere e mantenere un’adeguata qualità di vita, devono far fronte alle spese spesso ingenti che l’adeguamento fisico al genere sentito comporta. Avere un lavoro sicuro, socialmente accettato, equamente renumerato e soddisfacente favoriscono l’integrazione sociale e la costruzione della propria identità (Ageform 2002).

Perché le persone trangender vengono discriminate?

Quello con il lavoro è stato e rimane un rapporto problematico e controverso , che condiziona scelte, atteggiamenti e stili di vita” (Di Folco – Marcasciano, 2001), ed è proprio nei contesti lavorativi che si riconosce la maggiore vulnerabilità alle discriminazioni ( Casiccia – Saraceno, 2002). Lo scudo che si produce è caratterizzato da resistenze e difficoltà di accesso al mercato del lavoro generate da ignoranza, conservazione e familismo. Le ragioni della discriminazione vanno quindi ricercate nella presenza di nuovi e vecchi integralismi e nell’inadeguatezza culturale e storica da parte della società a riconoscere come propri stili di vita non corrispondenti a standard rassicuranti definiti “socialmente accettabili” (Toniollo, 2001[1]).

Quali sono le discriminazioni?

Analizzando la situazione lavorativa è possibile individuare due dinamiche discriminanti, statisticamente rilevanti: quella della discriminazione di ingresso nel mercato del lavoro, e quella del mobbing orizzontale o verticale, che si manifesta nel lavoro.

La prima modalità discriminatoria si esplicita in sede di colloquio di lavoro, dove la persona transgender o gender non-conforming, che viene identificata come tale in ragione del suo aspetto fisico o di documenti di riconoscimento non conformi alla sua identità, nella maggioranza dei casi vede respinta la sua candidatura. In particolare l’associazione ricorrente a livello culturale fra il concetto di transessualità e quello di prostituzione costituisce “uno fra gli ostacoli e le grosse difficoltà nel diritto di accesso al lavoro che penalizza l’intera categoria” (Di Folco – Marcasciano, 2001). Quest’ultima modalità causa tassi di disoccupazione più elevati di nella popolazione transgender rispetto alla popolazione non transgender (di s.).

La seconda modalità discriminatoria si lega alla particolarità principale e più evidente della condizione transgender sul posto di lavoro, la visibilità. Quella transgender è infatti una condizione che non può prescindere dal rendersi pubblica. Tale visibilità ha sempre una immediata ricaduta su tutti gli aspetti della vita affettiva, familiare ed anche lavorativa, ponendo nell’immediato le persone interessate a rischio di discriminazione. Con il coming out la persona può subire mobbing verticale, da parte quindi di management e datori di lavoro, o orizzontale, da parte di colleghi e pari (Cgil Settore Nuovi Diritti ).

Le discriminazioni sono dichiarate e manifeste?

La discriminazione non è mai manifesta, dato che la normativa italiana tutela contro le discriminazioni dovute all’identità di genere, sia all’atto dell’assunzione, sia durante il rapporto di lavoro e nessun provvedimento sanzionatorio può essere preso a motivo dell’adeguamento fisico e sociale all’identità di genere del lavoratore. Pertanto le pratiche discriminarorie sono spesso mascherate da pretesti legali, sono indirette e quasi mai l’adeguamento di genere del dipendente é motivo ufficiale di un provvedimento disciplinare o dell’esito negativo di un colloquio di assunzione (Toniollo, 2001).

Come incide la precarizzazione delle tutele nel lavoro?

Le trasformazioni del lavoro, il sorgere di una società basata su di un lavoro più autonomo, più individualizzato, più flessibile, sta scardinando il vecchio sistema organizzativo delle tutele (Semenza 2004), rendendo ancor più vulnerabili i lavratori appartenenti a gruppi sociale svantaggiati ( Toniollo, 2001).

Per evitare queste forme discriminatorie spesso le persone transgender e gender non-conforming sono portate a celare, per quanto possibile, la loro reale identità di genere. La carriera o la stabilità del posto di lavoro sono influenzate dal rendere pubblica o meno la propria condizione: la diffusa disinformazione sulla realtà transgeder “genera spesso equivoci, imbarazzo e a volte violenza ed aggressività” (Di Folco – Marcasciano, 2001).

Un etichettatura sociale (“social labelling”) negativa nell’ambito del lavoro può trasformarsi in un auto- etichettatura (“inner labelling”) e, conseguentemente, in una scarsa fiducia nelle proprie possbilità di inserimento lavorativo (Ageform, 2002).

Qual è il quadro legislativo? Quali tutele?

Il quadro legislativo frammentato e diversificato nei paesi dell’Unione Europea, dimostra come in molti stati membri la tutela nel luogo di lavoro delle persone transgender sia una pratica complessa e da questo punto di vista le attività delle associazioni di riferimento, dei sindacati e di alcune parti politiche si dimostra l’unico punto di appoggio nelle istanze di tutela dei diritti di queste persone nei luoghi di lavoro. In alcuni paesi dell’Unione Europea, le organizzazioni sindacali si occupano non da molto tempo specificatamente della questione, con impegni ed iniziative diversificate e recentemente queste tutele hanno avuto un recepimento formale anche dalla Conferenza Europea dei Sindacati, all’interno della Segreteria Politiche Sociali. In Italia il Dipartimento Diritti di Cittadinanza, l’Ufficio Nuovi Diritti della CGIL nazionale ed alcune Camere del Lavoro hanno promosso in questi anni iniziative pubbliche di discussione, organizzato convegni, seminari, partecipato ai congressi delle principali associazioni nazionali ed internazionali. Sono stati aperti sportelli di consulenza e ascolto per gay, lesbiche e persone transgender nelle Camere del Lavoro di Milano, Torino, Bologna e Genova ( CGIL Settore Nuovi Diritti).

Note

[1] Maria Gigliola Toniollo è responsabile dell’Ufficio Nuovi Diritti della Cgil nazionale, che dal 1988 promuove l’iniziativa sindacale contro la discriminazione di gay, lesbiche e transgender nel mondo del lavoro. L’attività contro le discriminazioni per orientamento sessuale e identità di genere si sviluppa su numerosi fronti, tradizionalmente sindacali e meno tradizionalmente sindacali, dall’organizzazione di iniziative pubbliche per informare e sostenere iniziative per il diritto allo studio, alla scrittura e al sostegno di proposte di legge per l’approvazione di norme antidiscriminatorie, nonché interventi legislativi in favore delle persone transessuali, dalla tutela sul posto di lavoro all’attivazione di uffici antimobbing, alle iniziative contro le limitazioni del Servizio Sanitario Nazionale. Con l’istituzione di sportelli di consulenza sul territorio si sono avute esperienze importanti in alcune Camere del Lavoro metropolitane come la Camera del Lavoro di Milano. Particolarmente attivi oggi l’Ufficio Nuovi Diritti Ligure e lo sportello trans presso il MIT di Bologna. Altre esperienze stanno comunque nascendo, di particolare rilievo l’Ufficio Nuovi Diritti del Sindacato della Comunicazione.

Diversity, inclusion e persone LGBT nel mondo del lavoro

La dott.ssa Monica Romano ha presentato l’intervento che segue, disponibile anche in video, presso il Municipio 3 di Milano il 2 marzo 2017, in occasione dell’incontro Donne, genere e lavoro – Istruzioni per l’uso.

Il quadro italiano delle discriminazioni nel lavoro delle persone LGBT non è semplice da definire, prima di tutto perché mancano i numeri: non conosciamo il numero di persone discriminate e, quando una discriminazione avviene, è molto difficile fornirne la prova. Quando parliamo di discriminazioni – in concreto – ci riferiamo al blocco della carriera, al mobbing orizzontale (quello messo in atto dai colleghi) e a quello verticale (quello messo in atto dai colleghi superiori gerarchicamente o dallo stesso datore di lavoro), alle molestie sessuali, all’esito negativo del periodo di prova, al mancato rinnovo del contratto a tempo determinato, fino ad arrivare al licenziamento.

Si può licenziare un dipendente perché gay, lesbica o transgender?

Ricordo che il licenziamento discriminatorio resta vietato nel nostro ordinamento, ma che l’onere della prova è a carico del lavoratore. Il licenziamento dichiarato discriminatorio in giudizio è nullo e comporta il diritto alla reintegra, il pagamento di tutte le retribuzioni perdute e la regolarizzazione previdenziale (e questo indipendentemente dalla dimensione aziendale). In Italia esiste il decreto legislativo 216/2003 che vieta la discriminazione basata sull’orientamento sessuale facendo esplicito riferimento ad essa.

Chi subisce le maggiori discriminazioni nell’acronimo LGBT+?

Le discriminazioni si differenziano per intensità a seconda della lettera dell’acronimo LGBT che vanno a colpire.

Ad esempio, spesso sentiamo dire che le lesbiche subiscono una doppia discriminazione, ma io direi che è anche tripla: sono infatti discriminate in quanto lesbiche, in quanto donne e, se lo sono, in quanto mamme. L’attenzione spesso morbosa che una coppia di donne subisce rende difficile il coming out sul posto di lavoro e quella dell’invisibilità diventa spesso una scelta obbligata. La madre sociale, quella non biologica nella coppia, da una parte ha tutti quegli oneri conseguenti alla genitorialità che possono incidere negativamente sulla sua carriera, ma dall’altra ma non gode delle agevolazioni previste perché non il suo status di genitrice non  viene riconosciuto.

Abbiamo poi le persone transgenere o transgender, che restano le più colpite dalle discriminazioni, a causa dell’impossibilità di nascondere quella rivoluzione estetica necessaria e conseguente all’iter di transizione. Le persone transgenere incontrano barriere all’ingresso del mercato del lavoro, dove vengono scartate ai colloqui di selezione, e mobbing sul posto di lavoro, quando iniziano l’iter in azienda. Complessa e non semplice è poi la gestione di rapporti di lavoro autonomo e nello svolgimento di libere professioni, dove è il rapporto con i clienti a presentare criticità.

Quanto incide la precarizzazione delle tutele nel lavoro?

In questo senso, l’ultima riforma del sistema lavoro chiamata Jobs act non ha migliorato la situazione. Pur avendo portato alcune evoluzioni sul piano della tutela del lavoro prevedendo, ad esempio, maggiori tutele per la maternità delle lavoratrici autonome e delle iscritte alla Gestione Separata Inps e ampliato la platea dei beneficiari di trattamenti di sostegno al reddito in caso di disoccupazione, questa riforma ha messo in discussione importanti diritti che storicamente si consideravano acquisiti in Italia, legati soprattutto al lavoro a tempo indeterminato in aziende con più di 15 dipendenti e alle tutele previste dallo Statuto dei lavoratori. Il Contratto a Tempo Indeterminato a Tutele Crescenti (CATUC), ha definitivamente sostituito il Contratto a Tempo Indeterminato che conoscevamo da decenni, rendendo di fatto più facile licenziare per un datore di lavoro.

Quindi, se è vero che la tutela dai licenziamenti discriminatori ancora sussiste, è altresì vero che una generale maggiore agibilità ai licenziamenti da parte del datore di lavoro di norma comporta maggiori rischi per quelle categorie più deboli da un punto di vista sociale e culturale, come le donne e le persone LGBT.

Cosa può fare il Comune di Milano per impedire le discriminazioni nel lavoro?

Venendo alla domanda che ha aperto questo nostro evento –  Cosa può fare un’amministrazione cittadina per fronteggiare le discriminazioni? – come potremmo quindi rispondere?

Senz’altro che un’amministrazione cittadina può fare moltissimo. Ad esempio promuovere una diversa cultura aziendale e organizzativa, formando imprenditori e manager aziendali, promuovendo l’idea che il diversity management non il è fumo negli occhi – come molti imprenditori ancora pensano –  ma una politica di gestione del personale che può incrementare la produttività di un’azienda.

Dovremmo seguire l’esempio di città come Londra, Berlino o Barcellona, che hanno politiche di diversity & inclusion molto sviluppate: occorre far sì la giustizia organizzativa divenga strategia organizzativa.

Non si tratta solo di insegnare che discriminare è sbagliato, o che non discriminare ci rende migliori e politicamente corretti, ma anche che scegliere l’inclusione è vantaggioso in termini strategici e di competitività per un’impresa. Si tratta di spiegare che il pregiudizio in ragione dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere delle persone può essere un ostacolo al reclutamento e alla promozione del candidato più qualificato per un lavoro e dei migliori talenti che il mercato offre, eccellenze incluse.

Creare un ambiente di lavoro sereno e adatto a qualunque persona risulta vincente per tutti, anche per i collaboratori maschi, bianchi ed eterosessuali. L’assenza di discriminazioni è produttiva.

Mettere l’etica è al centro è insomma più intelligente,oltre che giusto.

Queste sarebbero delle ottime premesse per far sì che, un domani, qui a Milano, si potrà essere persone gay, lesbiche e transgender dichiarate e ambire a fare carriera anche fino ai massimi vertici. Questa potrebbe essere una grande sfida per la nostra città.

Perché per la Diversity è importante portare lo storytelling in azienda?

La fantastica Jane Fonda non perde occasione per ricordare l’importanza delle storie, ma anche dell’inclusione e della diversity. L’attrice 83enne, attivista e guru della moda, alla 78esima edizione dei Golden Globes, ha ricevuto il premio alla carriera e con il suo discorso di ringraziamento ha toccato tutti:

Siamo una comunità di narratori e in momenti di crisi e turbolenza è sempre stata essenziale la capacità di racontare per cambiare la nostra mente e vivere l’empatia. Con le nostre diversità siamo tutti esseri umani. Nella mia vita ho visto tante differenze, ma con cuore aperto e andando sotto la superficie. Gesù e Maometto ci hanno parlato attraverso la poesia perché le forme di narrazione non lineare come l’arte sono quelle che parlano ad un’altra frequenza e penetrano le nostre difese. Tanti film quest’anno, da ‘Nomadland’ a ‘Minari’, mi hanno aperto all’amore e ricordato quanto è fracile la nostra democrazia e quando piccolo e fragile il nostro pianeta. C’è una storia che abbiamo paura di vedere e sentire e riguarda le voci all’interno della nostra comunità che prende decisioni e attribuisce premi; portiamo avanti senza paura la diversità. In passato abbiamo marciato, è di nuovo ora di prendere il bastone e rimetterci in marcia.”

Insomma, raccontarci è una potente pratica che abbatte barriere, steccati e distanze.
Lo storytelling ha il potere di avvicinarci e di decostruire i pregiudizi reciproci, migliorando l’ambiente che ci circonda.
Le storie hanno questo potenziale anche e soprattutto in azienda e sui posti di lavoro, dove trascorriamo gran parte del nostro tempo. Dobbiamo soltanto imparare a creare le giuste precondizioni affinché le persone possano portare se stesse e raccontarsi senza timori, seminare il terreno giorno dopo giorno per favorire un clima inclusivo che tutti i collaboratori possano percepire.
Non è impossibile e nemmeno particolarmente difficile. I benefici sono enormi e tangibili per tutti (sì, anche a livello di numeri!).
Agli scettici di molte picoole e medie – ma anche grandi – imprese, ricordo che un vecchio slogan – in voga nei favolosi anni ’80 – diceva: “provare per credere”.
Dunque, perché non tentare almeno di portare un po’ di cultura inclusiva in azienda?