Ignorarle non paga! Perchè è giusto manifestare contro le “Sentinelle in piedi”.

Domenica 12 aprile ho preso parte al presidio in risposta alle “Sentinelle in piedi” organizzato a Milano all’Arco della Pace.

Non ho partecipato in rappresentanza dell’associazione di cui faccio parte, il Circolo Harvey Milk di Milano, ma a titolo personale.

A chi mi ha chiesto se di domenica non avessi null’altro di meglio da fare, ho risposto che sì, avrei certo potuto fare di meglio, ma che scendere in piazza raprresenta un'”imperativo categorico” per me, come cittadina che rivendica la laicità delle istituzioni, come donna transgender e come lesbica. 

Non posso infatti accettare l’idea che questa gente scenda in piazza per contrapporsi primariamente, ricordiamolo, ad un disegno di legge contro l’omotransfobia. Provo una forte rabbia, sì. Perchè queste persone, queste “sentinelle”, se non fosse chiaro a qualcuno, vogliono che la violenza contro le persone LGBT*, che quasi quotidianamente le cronaca ci restituisce, continui nell’omertà e nel silenzio, che non sia prevista un’aggravante delle pene comminate a chi ci insulta, ci picchia, ci ammazza. Vogliono riportare in auge le “teorie riparative”, secondo le quali omosessualità e transessualità sarebbero “curabili”. Vogliono entrare nelle nostre teste e correggerci. Vogliono che si continui ad impedirci di essere famiglia e si battono contro il riconoscimento sul piano legislativo e giuridico della nostra esistenza e dignità. Tutto questo dietro al paravento della “libertà di espressione” e di modalità solo apparentemente pacifiche di manifestare. La realtà è che dietro al silenzio e ad un pacifismo di facciata, si nasconde la più feroce, colpevole e fascista intenzione di reprimerci e annullarci.

 Tenendo la mano della mia compagna, ho osservato questi difensori della “famiglia naturale” mentre inscenavano con solerzia la solita demenziale rappresentazione: disposti in ordinatissime file, con gli sguardi rivolti sui loro bei libretti, in silenzio.

Fra noi e loro un cordone di poliziotti, a tutela della sicurezza di tutt*.

 A promuovere il presidio a cui ho preso parte, ancora una volta (se ne era già tenuto uno a dicembre, promosso da “I sentinelli”), non è stato l’associazionismo LGBT* “tradizionale”, ma altre soggettività (questa volta il collettivo “Le lucciole” e i Pastafariani), e di questo non posso che rammaricarmi.

Credo infatti che dovrebbero essere le associazioni LGBT*, in primis quelle considerate più rappresentative (a ragione o a torto), a promuovere ed organizzare presidi in risposta alle Sentinelle in Piedi, avendo un ruolo da protagoniste.

La dialettica è invece a ruoli invertiti: sono le altre soggettività, come i già citati Sentinelli (che hanno tutto il mio rispetto e la mia stima, non mi si fraintenda), a promuovere ed organizzarre i presidi. Le associazioni, semplicemente, scelgono se aderire o non aderire, accodandosi ad iniziative promosse da altri.

Questo perchè fino ad ora l’associaziosmo LGBT* ha scelto di ignorare le Sentinelle in Piedi, ritenendo che manisfestare contro questa gente significhi fare il loro gioco, offrire loro visibilità. E’ così accaduto che l’indignazione che le persone LGBT*, i loro amici, familiari e sostenitori provano nei confronti di chi scende in piazza al solo scopo di negare diritti e dignità, sia stata (legittimamente!) cavalcata e catalizzata da altre organizzazioni.

Un grave errore politico.

Purtroppo, negli ultimi anni, il “manifestare contro” e l’idea stessa di protesta hanno perduto moltissimo appeal politico presso i nostri movimenti. Giorni fa una militante di Arcilesbica, durante una riunione del Coordinamento Arcobaleno delle associazioni LGBT* milanesi, giustamente ricordava come alla legge 194 sull’aborto, vera conquista di civiltà, si sia arrivati protestando e facendosi sentire.

Dovremmo essere noi, gli addetti ai lavori, i volontari delle associazioni aperte e operative tutto l’anno, a studiare il caldendario delle Sentinelle e ad organizzare qui a Milano il prossimo presidio, potendo così dare anche la linea sul comportamento da tenere durante la manifestazione, garantendo regole e contenuti condivisi nell’espressione del dissenso della nostra “base”.

Questa è la proposta che porterò presso la mia associazione, il Milk, che, essendo associazione plurale, porta giustamente in sè differenti punti di vista e sensibilità sulla questione, nella speranza che trovi accoglimento e condivisione.

Anche se così non dovesse essere, continuerò a prendere parte a presidi e proteste a titolo personale, nella speranza che l’associazionismo LGBT* sia protagonista e promotore delle future mobilitazioni.

Il senso del Pride fra campanilismi, bagarre e un po’ di nostalgia

Articolo pubblicato sul secondo numero della rivista  di cultura LGBT “Il Simposio“.

Dal Pride Nazionale alla nazione dei Pride”.

Con questo titolo indovinato ed efficace Repubblica.it ha annunciato la fine dei Pride nazionali itineranti, apertasi ufficialmente a Roma nel 1994, e l’inizio di una stagione nuova, fatta di manifestazioni locali unite da una comune piattaforma rivendicativa, l’“Onda Pride”. Le maggiori associazioni LGBT sono arrivate a questa decisione in modo condiviso, nel corso dell’assemblea convocata dal Coordinamento Torino Pride l’8 e il 9 febbraio scorsi.

Tredici le mobilitazioni in calendario quest’anno: Roma, Venezia, Bologna, Catania, Milano, Napoli, Palermo, Perugia, Torino, Venezia, Alghero, Lecce e Reggio Calabria.

Nel movimento molti hanno accolto con favore un superamento del Pride nazionale che, di fatto, andrà a sanare le annose diatribe fra città, relative associazioni e circuiti di locali e servizi rivolti alla cittadinanza LGBT. Fino all’anno scorso, infatti, la scelta della città che avrebbe ospitato la manifestazione nazionale operata di anno in anno dalle maggiori associazioni, e soprattutto le modalità e le motivazioni che ne erano alla base, hanno spesso dato adito a liti e polemiche fra le soggettività che compongono il nostro eterogeneo e variegato movimento. Del resto, riuscire ad accaparrarsi un Pride nazionale in grado di mobilitare migliaia di persone offriva, oltre a prestigio, visibilità e un maggiore appeal politico, un ritorno economico per tutto l’“indotto” LGBT locale. Vecchie bagarre della quali probabilmente nessuno sentirà la mancanza, sostengono i fautori dell’“Onda”, mentre, avvicinandoci al resto d’Europa, ci lasciamo alle spalle un’idea di Pride nazionale tutta italiana.

Auspicando la dovuta attenzione e il sostegno del movimento tutto per Alghero, Lecce e Reggio Calabria, città che ospiteranno il loro primo Pride e quindi prossime al gioioso battesimo LGBT, do uno sguardo al passato. C’è un’idea pioneristica e simbolicamente molto forte di Pride, che il movimento ha provato a mettere in atto ormai diversi anni fa che, confesso, non ho mai smesso di rimpiangere: quella della manifestazione nazionale portata in realtà non metropolitane o in provincia. Alla base di questa visione un principio più che condivisibile, secondo il quale le realtà locali storicamente più forti a livello di presenza di associazioni e di militanti sul territorio come Roma, Milano o Bologna, avrebbero aiutato le province, più deboli in termini numerici, spesso in fieri nella costituzione di una rete locale LGBT e quindi alle prese con tutti i problemi che questo tipo di lavoro comporta in territori di confine (in primis nei rapporti con le istituzioni locali), lasciando a queste ultime la contesa mobilitazione nazionale.

Ricordo quando nel 2002 marciammo a Padova. Allora ero un’attivista di Crisalide Azione Trans. In quell’occasione vidi le mie amiche e compagne dell’associazione, abituate a una Milano ormai abbondantemente “vaccinata” dai Pride, molto turbate dall’accoglienza che la città ci aveva riservato. Una di loro pronunciò una frase, fra il solenne e l’ironico, che ancora oggi citiamo con il sorriso sulle labbra: «Al nostro passaggio il tempo sembra fermarsi». Era proprio così. Centinaia di persone che, vedendoci arrivare, restavano attonite, in silenzio e sulla difensiva, ma allo stesso tempo troppo curiose per non scrutare le trans scese in strada a manifestare da tante parti d’Italia. Fu in quell’occasione che molt* di noi compresero quanto fosse più importante manifestare ed essere visibili proprio là, dove era più difficile.

Nel 2004 partecipammo al Grosseto Pride, del quale ho un ricordo meraviglioso. L’accoglienza fu molto diversa da quella riservataci a Padova due anni prima. Ricordo molte signore che ci applaudirono e salutarono dai balconi, con i mariti un po’ in disparte ma comunque sorridenti, mamme con i bimbi nel passeggino che vollero fare un pezzo di corteo insieme a noi, io e un’amica incredule di fronte a un papà che cercava di spiegare alla figlia sulle sue spalle il significato del nostro striscione, l’euforia degli attivisti e dei ragazzi LGBT grossetani per quel loro Pride. Ci furono una gioia attorno a noi per la nostra presenza, e un’accoglienza che ci ripagarono per le tante ore di macchina e per il disagio che il nostro viaggio aveva comportato (era una giornata caldissima). Quando negli anni successivi mi è capitato di parlare del Pride di Grosseto con persone che vi avevano preso parte, ho sempre avuto feedback molto positivi, segno che quella manifestazione è rimasta nel cuore di molti.

Malgrado questo, all’epoca l’evento fu sostanzialmente ignorato dai maggiori media italiani, che lo relegarono alle cronache locali. Inoltre, avendo mobilitato solo ventimila persone, cifra considerata non entusiasmante dagli organizzatori, fu considerato un insuccesso. Per queste ragioni il Grosseto Pride segnò la fine dell’esperimento dei Pride itineranti in città non metropolitane, durato appena tre edizioni: nel 2002 a Padova, nel 2003 a Bari e nel 2004 a Grosseto.

Curiosa di vedere quale sarà l’impatto dell’“Onda” su istituzioni, media e cittadinanze dei luoghi interessati, mi faccio qualche domanda fra passato e futuro imminente.

Se negli stessi giorni avessimo avuto i nostri bei Pride locali nella rassicurante Milano, ci saremmo mai ritrovate vis à vis con i benpensanti padovani in quell’ormai lontano 2002? Avremmo marciato con quelle mamme a Grosseto nel 2004? Avremmo avuto occasione e modo di confrontarci con i militanti e le persone LGBT* di quei luoghi, arricchendoci vicendevolmente dal punto di vista politico ma soprattutto umano?

Siamo davvero sicuri che l’Onda Pride, venduta come meno verticistica e più europea e orizzontale, non finirà col portare a manifestazioni di serie A nelle grandi metropoli, e di serie B nelle province, proprio dove invece ci sarebbe maggiore bisogno di mobilitazioni il più possibile partecipate?

Era davvero necessario arrivare all’“Onda”, quando nei fatti l’esistenza di un Pride nazionale non ha mai impedito neanche in passato l’organizzazione di Pride locali (tutt’al più le associazioni locali erano invitate a evitare sovrapposizioni di date, non organizzando mobilitazioni nello stesso giorno del Pride Nazionale per favorire la partecipazione a quest’ultimo)?

Forse non tutta l’esperienza dei Pride nazionali è da buttare via, o da “rottamare”. Forse il movimento tutto, a partire da Arcigay nazionale, dovrebbe fare un passo indietro, e riprovare a mettere fine al monopolio delle grandi città sui Pride e alla guerra d’interessi che l’ha accompagnata negli ultimi anni, facendo scelte coraggiose.

Bigliografia

  • “Grosseto Pride 2004”, Saggio di Giovanni Dall’Orto, Cultura Gay.it

  • “Gay, al via l’onda Pride in tredici città”, Repubblica.it