Il mio intervento alla 14ª Conferenza Mondiale Science for Peace and Health della Fondazione Umberto Veronesi
L’11 novembre scorso, ho avuto il piacere e l’onore di intervenire alla , organizzata dalla Fondazione Umberto Veronesi – che ringrazio per l’invito – presso l’aula magna dell’Università Bocconi.
Nell’edizione di quest’anno la Conferenza ha deciso di affrontare il tema delle differenze sessuali e di genere a partire dalla prospettiva delle scienze. Il tema è stato esplorato con l’approccio multidisciplinare che è carattere distintivo della Conferenza, prendendo in esame l’ambito scientifico, sanitario, economico e sociale.
Sono intervenuta in qualità di Vicepresidente della Commissione Pari Opportunità e Diritti Civili del Comune di Milano e di specialista sulle tematiche di diversity & inclusion nelle organizzazioni, al fine di illustrare le politiche per la diversità nella città di Milano.
Oggi pomeriggio terrò una formazione sul linguaggio inclusivo (per informazioni sui miei corsi scrivete pure all’indirizzo info@monicaromano.it) rivolta ai corsisti del Master in Risorse Umane di Bianco Lavoro Academy.
Preparando le slide per la mia relazione, ho pensato di scrivere un articolo che offra una definizione di linguaggio inclusivo e che risponda ad alcune domande che ricevo molto frequentemente:
Il linguaggio è la facoltà dell’essere umano di entrare in relazione con altre persone attraverso un sistema di simboli, che altro non sono che convenzioni, cioè accordi che abbiamo trovato nell’abbinare i diversi significati ai significanti. Appartenendo a uno stesso sistema socio-culturale noi arriviamo a capirci perché il linguaggio è primariamente uno strumento di comunicazione e interazione.
Il linguaggio è una facoltà che apprendiamo fin dalla primissima infanzia. Il linguaggio non viene insegnato, ma appreso in modo organico nell’interazione con l’ambiente, il contesto, le persone con cui cresciamo attraverso il gioco, che in quegli anni è lo strumento di scoperta e confronto con chi ci sta intorno. A scuola ci vengono poi insegnate le regole grammaticali e sintattiche e l’arricchimento del vocabolario. Così si favorisce lo sviluppo sociolinguistico e via via il nostro linguaggio diviene sempre più ricco e sofisticato fino a renderci autonomi in età adulta.
Il linguaggio svolge una funzione su quattro piani essenziali:
Il linguaggio inclusivo è quindi un linguaggio che non discrimina, un linguaggio attento alle diversità, un linguaggio che fa sentire le persone rispettate. Il linguaggio inclusivo mette al centro le persone, le individualità e non le categorie di cui le persone fanno parte. In questo senso, “Il linguaggio è un atto di identità”, citando la sociolinguista Vera Gheno, perché le parole che usiamo e scegliamo dicono chi siamo. Il linguaggio, insomma, ci definisce.
L’inclusione delle diversità produce valore per le persone considerate diverse (maggior senso di appartenenza e quindi di motivazione e partecipazione e perciò di produttività), ma esistono anche indicatori dell’impatto di business ed economico che si produce all’interno di un contesto economico e organizzativo.
La lingua utilizzata fino a poco tempo fa nelle aziende era costruita su una norma che per motivi storico-culturali era cucita su un’impronta maschile, caucasica, eterosessuale, cristiana e abile. Quella lingua non aderisce a una nuova realtà fatta di moltissime differenze e sfumature.
Occorre accompagnare le organizzazioni per far sì che il linguaggio che si utilizza lavori a favore di un percorso inclusivo. Un linguaggio che deve andare oltre le campagne di comunicazione e arrivare al quotidiano: il linguaggio che utilizziamo durante una riunione, il linguaggio del corpo di quando ci si incontra nei corridoi di un’organizzazione.
Normalmente l’Italia è un paese che tendiamo a considerare arretrato dal punto di vista del lavoro per l’inclusione delle differenze. In netta controtendenza con questo immaginario condiviso, rileva segnalare che le aziende italiane stanno invece rispondendo molto bene e che – a oggi – abbiamo una richiesta elevatissima di corsi e formazioni dedicate al linguaggio inclusivo. Scuole, università e terzo settore fanno un lavoro importante in questo senso, ma è innegabile che il mondo delle corporate e delle aziende stia dando in questi anni una spinta decisiva a un vero e proprio cambiamento culturale.
Così siamo approdati al Diversity and Inclusion Speaking, con veri e propri corsi di linguaggio inclusivo che si ispirano ai corsi di lingua straniera, con tanto di test di ingresso in cui si viene valutati rispetto al proprio livello di competenza e consapevolezza.
A seconda del livello si costruisce un percorso che si articola in diversi incontri e una valutazione finale per valutare impatto e cambiamento portati dai corsi.
Il linguaggio fa parte della nostra vita praticamente da sempre, e quindi siamo portati a dare molte cose per scontate. Tolte le situazioni formali, noi non riflettiamo sul linguaggio che utilizziamo (del resto il linguaggio è anche un automatismo), soprattutto in situazioni in cui siamo sotto stress e parliamo velocemente. Ripeschiamo nel nostro repertorio linguistico le espressioni che utilizziamo da sempre. Non ci riferiamo in questa sede al linguaggio di odio utilizzato appositamente per offendere e far del male, ma a quello che veicola pregiudizi in modo inconsapevole.
Utilizzare “signora” al posto di “dottoressa” nel rivolgersi a una collaboratrice sul posto di lavoro
Con questa scelta di parole, si mortifica il valore professionale di una collega o collaboratrice.
“Bella e brava!”
Spesso, chi utilizza espressioni come questa pensa di rivolgere un complimento e di gratificare chi lo riceve.
Purtroppo in moltissimi casi accade l’esatto contrario, perché – come molte partecipanti ai corsi di diversity & inclusion speaking hanno evidenziato partendo dalle loro personali esperienze – complimenti di questo tipo possono provocare disagio e imbarazzo.
Dare del gay a un eterosessuale
«Ma non è una cosa grave, lui non è gay e quindi non è un’offesa!»
In realtà, questa pratica fra uomini eterosessuali serve a prendere le distanze dall’omosessualità.
Se accade fra omosessuali ovviamente il senso è completamente diverso e richiama appartenenza.
Ridicolizzare e schernire l’uso dello schwa e dell’asterisco
Lo schwa – trascritto con ə – e l’asterisco sono simboli molto importanti per la comunità LGBT+, in particolare per la comunità transgender e non binaria, perché veicolano un linguaggio che non esclude chi si discosta dal paradigma uomo/donna. Fare ironia sull’utilizzo di questi simboli significa mortificare le istanze di inclusione di questa comunità, che riguardano anche il linguaggio.
L’asterisco non si legge, si scrive e basta. Si usa affinché anche i destinatari del nostro messaggio appartenenti alla comunità transgender e non binaria si sentano inclusi fra le persone a cui ci rivolgiamo.
Se collocato come desinenza di una parola, anche lo schwa non si legge, si scrive e basta.
Per pronunciare la parola “schwa”: la “c” non è dura come in “scuola”, ma morbida come in “piscina”, e anche il gioco con la “s” e l'”h”, che è muta, aiuta a riprodurre il suono sibilante “shhh”. La parola schwa si pronuncia “shuàa”, con una “a” allungata sul finale.