Politica, pregiudizi e bias cognitivi

Le aspettative successive alla mia elezione in Consiglio Comunale

Occupandomi di diversity management trovo interessanti, da un punto di vista scientifico, le aspettative di alcuni legate alla mia elezione in Consiglio Comunale. Molti, soprattutto nella comunità LGBT+, sono portati a pensare che io “debba” occuparmi esclusivamente di diritti trans* o LGBT+. Oppure, che per il solo fatto di essere una donna transgender io “debba” essere contro futuri provvedimenti per la sicurezza in Porta Venezia, o che mi “debba” necessariamente e subito esprimere nel merito di manifestazioni femministe a Milano (senza minimamente tenere conto del fatto che tanti sono i temi che chi siede in Consiglio Comunale, soprattutto se è all’inizio del suo mandato, deve studiare, come io sto facendo, peraltro in religioso silenzio: “prima di parlare, studia”, così mia madre mi ha insegnato), o ancora che io “debba” essere favorevole al sex work senza se e senza ma (ma perché?).

Che cosa significa essere una Consigliera Comunale in termini di rappresentanza?

Deludere queste aspettative significa andare incontro alle accuse di alto tradimento delle frange antagoniste dei movimenti. Che reclamano a gran voce che io “debba” “rendere conto alla base”, dimenticando che le persone a cui io devo rendere conto sono i cittadini milanesi. Tutti, senza distinzioni.

La maggioranza dei miei elettori sono persone eterosessuali, in particolare donne

E che, se proprio volessimo entrare nel merito delle logiche dei ‘do ut des’ elettorali, allora dovrei rendere pubblico un dato: la schiacciante maggioranza dei miei elettori non appartiene ad aree antagoniste o transfemministe. E nemmeno alla comunità LGBT+. Certo, una parte di miei elettori e sostenitori fa parte della comunità LGBT+ (appartenenti comunque all’area più moderata) e si tratta di quelle persone con cui ho costruito un rapporto di reciproca stima e scambio nel corso degli anni.

Tuttavia, la maggioranza delle persone che hanno scritto il mio cognome sulla scheda elettorale, se proprio volessimo andare a vedere, sarebbero persone eterosessuali, in particolare donne, che non appartengono alla nostra comunità, e che hanno deciso di darmi fiducia.Come faccio a saperlo? È semplice, sono in costante relazione con chi mi ha votato e sostenuto e so come si è svolta la mia campagna elettorale. Una campagna molto intensa che ha toccato tutti i temi che riguardano Milano e che si è svolta in gran parte fuori dalla bolla LGBT+. I temi più affrontati sono stati lavoro, uguaglianza di genere, manutenzione del manto stradale (buche e marciapiedi da sistemare), pulizia delle strade e cestini (sì, i cestini!), sicurezza, caro vita, bagni pubblici (che fine hanno fatto?).

Lavoriamo sui bias cognitivi e ampliamo lo sguardo!

Per concludere, io credo che chi in buonafede ritiene e si aspetti che io debba occuparmi solo e soltanto di temi LGBT+ abbia una sguardo male orientato a causa di bias cognitivi (pregiudizi inconsci). L’invito è ad allargare lo sguardo e uscire da bolle e steccati. Che non significa che io non mi occuperò anche di diritti LGBT+, intendiamoci. Lo farò come ho fatto dal 1998 a oggi, seguendo la mia coscienza e per mia libera scelta. E, soprattutto, al di fuori dei “diktat” che non fanno bene alla causa e che contribuiscono soltanto a creare gabbie mentali e politiche.

Migranti e lavoro, l’esperienza di “Migrants”

Nell’ambito del Master in Diversity Management e Gender Equality di Fondazione Giacomo Brodolini, ho avuto il piacere di ascoltare Christian Richmond Nzi – ivoriano, doppio passaporto americano e svizzero, laurea in Diritto Internazionale e Diplomazia ed ex funzionario Frontex – parlare di “Migrants Opportunity in Adversity“.
Migrants è una piattaforma che – attraverso un sistema di microlearning, quiz e screening delle competenze professionali, delle esperienze lavorative e delle aspirazioni individuali – profila professionalmente i migranti e favorisce l’incontro fra domanda e offerta di lavoro.
Nella parte di profilazione trovano spazio profili di tante e diverse tipologie ed estrazioni, head hunting delle eccellenze incluso.
Molto interessante anche il lavoro che Migrants porta avanti nel microcredito al fine di rendere le risorse “bancabili”.

Il lato “oscuro” del Diversity Management

Esiste un lato oscuro del diversity management?
Ahinoi, sì! E spesso dipende dalla mancanza di coraggio.
Ce ne hanno parlato tre relatrici davvero in gamba – Wissal Houbabi, Mara Pieri e Beatrice Gusmano – coordinate da Marta Capesciotti nella tavola rotonda “Valorizzazione o strumentalizzazione? Un’analisi critica delle politiche di diversity management“, nell’ambito del Master in Diversity Management e Gender Equality di Fondazione Giacomo Brodolini.
Idee, riflessioni e geniali provocazioni hanno stimolato le relazioni e il dibattito che ne è scaturito.
Per portare un esempio, Beatrice Gusmano ha sottolineato come spesso il diversity management cerchi di evitare parole che spaventano come “omofobia”, “sessismo” e “razzismo”, ma che così facendo troppo spesso finisca con l’avere un impatto quasi nullo nel portare cambiamenti concreti nelle realtà aziendali.
Un altro esempio è che troppo spesso ci si focalizza sulle diversità perdendo di vista che focus della diversity devono essere i contesti e la loro trasformazione!
Insomma, spesso manca la volontà di portare avanti un approccio autenticamente trasformativo.
Ritengo tuttavia che il solo fatto di parlare del problema sia un buon inizio per poter arrivare a risolverlo.

L’unica persona nera nella stanza

“La diversità è come invitato a una festa, l’inclusione è come essere invitato a ballare”
Con questa citazione Nadeesha Uyangoda – autrice del libro “L’unica persona nera nella stanza” e coautrice del podcast “Sulla razza” – ci ha introdotto alla differenza fra il concetto di diversità e quello di inclusione, nell’ambito del Master in Diversity Management e Gender Equality di Fondazione Giacomo Brodolini.
Ci ha poi spiegato che cosa sono l'”inclusione predatoria” e quella “performativa” – definizioni della giurista afroamericana Cheryl Harris – facendo riferimento a quelle aziende che si appropriano delle lotte degli attivisti per i diritti civili al solo scopo di aumentare il proprio fatturato.
L’autrice si è poi soffermata sulle affirmative actions come la “regola Rooney”, che obbliga le squadre della National Football League a fare un colloquio anche a persone nere o di minoranza etnica.
In ultimo, è antrata nel merito di una questione ancora molto accesa e dibattuta, quella sulla parola “razza”: è giusto utilizzare ancora questo termine? Secondo buona parte dell’attivismo per le minoranze etniche sì, perché senza la parola “razza” non esisterebbe la parola “razzismo”, indispensabile per identificare i fenomeni di esclusione e marginalizzazione.