Non-binary ante litteram: un tributo a Leslie Feinberg – Estratto da Gender (R)Evolution

“Ancora non potevo immaginare che quello che avevo vissuto, fino a qualche istante prima, come un
personaggio distante e irraggiungibile, avrebbe avuto un ruolo importante nella mia vita, quello di specialissimo traghettatore che mi avrebbe portato per manonel viaggio che va dall’idea che i generi siano soltanto due, a quella – ben più potente, liberatoria e galvanizzante – che quello dei generi sia un arcobaleno fatto di diverse sfumature.”

Estratto dal libro Gender R- Evolution di Monica Romano per Ugo Mursia Editore.
Nella foto, Leslie Feinberg, Kansas City, 1º settembre 1949 – Syracuse, 15 novembre 2014.

#genderevolution

Perchè ho deciso di scrivere “Storie di ragazze XY”

Articolo pubblicato dalla rivista di cultura LGBT “Il Simposio”

Nel 2008 pubblicai il mio primo libro dal titolo Diurna. La transessualità come oggetto di discriminazione, con la casa editrice Costa & Nolan.

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Diurna era un saggio che analizzava i temi sui quali  il movimento per i diritti delle persone transgender, in Italia e nel mondo, ormai da decenni cercava (e cerca) di richiamare l’attenzione. Nel  considerare le cause della marginalizzazione delle persone trans* nella società occidentale, mi ero soffermata sui temi che seguono:

* il fenomeno della discriminazione delle persone transgender nel mondo del lavoro, sia per ciò che concerne la ricerca di un lavoro (la discriminazione all’ingresso del mercato del lavoro), sia  per il mantenimento del posto di lavoro (il femoneno del mobbing);

* il femoneno della discriminazione presso le agenzie di socializzazione, come la scuola e l’università;

* il distorcimento e l’alterazione della realtà transgender nell’immaginario colletivo ad opera principalmente dei mass media, che per anni hanno promosso un’idea delle persone trans* ad uso e consumo della morbosità di lettori e telespettatori e tralasciato invece, fatte salve rare eccezioni, un’informazione corretta sulle tematiche legate all’identità di genere;

* il binomio “transgender = prostituta” presente nell’immaginario collettivo, le sue origini e le ricadute sulla vita quotidiana delle persone transgender;

* il tema della transfobia e l’elevatissimo tasso di omicidi di persone transgender, soprattutto donne, silenzioso massacro che ogni anno raggiunge numeri impressionanti;

* l’importanza dell’esistenza di associazioni e gruppi transgender dove le persone possano confrontarsi e interagire;

* l’istanza di despichiatrizzazione della condizione trans*;

* l’elaborazione di una cultura transgender, di nuove visioni e linguaggi, in un’ottica di decostruzione del sistema culturale e di significati binario nel quale siamo immersi;

* la transfobia interiorizzata e la ricerca dell’invisibilità sociale da parte di molte persone transgender;

* l’analisi dell’apporto che ci viene offerto dalla storia e dall’antropologia, di quelle culture anche millenarie che prevedevano generi alternativi al binomio uomo/donna, dell’esistenza quindi di persone e culture transgender ante litteram;

* l’elaborazione di un manifesto politico, il Manifesto per la libertà di genere, che concludeva il libro auspicando una rivoluzione delle coscienze e, conseguentemente, del sistema sociale e culturale.

La pubblicazione di Diurna è stata un’importante esperienza che presentò un limite, dovuto principalmente al linguaggio. Il libro era infatti un saggio, la rielaborazione della mia tesi di laurea dedicata a tema della discriminazione, e aveva una terminologia accademica.

Presentando Diurna presso associazioni, librerie ed università avevo spesso l’impressione che i concetti arrivassero agli uditori, ma che restassero in qualche modo soltanto informazioni, dati, concetti simili a tanti altri per chi li ascoltava.

Ero gratificata da quel lavoro di informazione, ma non mi sentivo pienamente soddisfatta. Da attivista mi sono sempre posta un obiettivo ben più ambizioso, che è la sensibilizzazione delle persone prima dell’informazione, che deriva dalla capacità di fare breccia nelle coscienze.

In una notte d’estate un po’ sottotono del 2008 fu un amico ad aprirmi gli occhi, un uomo transgender che nella mia vita ha una funzione importantissima: da anni mi porta a serate danzanti e molto frivole quando nell’aria si sente un po’ di malinconia. Fu lui a dirmi che il mio libro era certo utile e ben scritto ma inaccessibile alla maggior parte delle persone, perché troppo difficile. Con un sorriso complice, mi invitò a raccontare le nostre storie, i tanti aspetti drammatici come quelli divertenti e tragicomici, sforzandomi di utilizzare un linguaggio accessibile che favorisse  l’empatia, quel processo di identificazione fondamentale ed irrinunciabile per chi alle coscienze altrui vuole arrivare, incoraggiando un viaggio fra le prospettive.

In questo Leslie Feinberg, attivista transgender americano venuto a mancare nel 2014, era riuscito magistralmente. Lessi il suo libro Stone Butch Blues nel 2004. Lo avevo divorato in una notte e, dal giorno successivo, niente per me fu più come prima.

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Avrei avuto l’onore di conoscere Leslie Feinberg solo qualche mese dopo in occasione della presentazione del suo libro in Italia, nel giugno 2004, ma mi era bastato leggere quel libro per amarlo ancora prima di conoscerlo.

Stone Butch Blues è un memoir dove Leslie, attraverso il personaggio di Jess,  una fierissim* butch, racconta la comunità LGBT nell’America degli anni ’60 e ’70 prima e successivamente ai moti di Stonewall.

Senza illudermi di poter  in qualche modo eguagliare il mio ispiratore quanto a potenza esperienziale e narrativa, decisi di darmi anch’io alla scrittura di un romanzo di ispirazione autobiografica, cercando di fare la mia piccola parte in quella che mi piace immaginare come la stesura di una lunga storia corale e scritta a più mani, quella del nostro movimento e delle nostre battaglie di liberazione.

Storie di ragazze XY è quindi nato così, con l’intenzione di concentrare tutti  i temi già affrontati in Diurna in un racconto semplice e che potesse essere accessibile a chiunque.

A ormai più di tre mesi dall’uscita di questo secondo libro sto ricevendo molte domande da chi ha deciso di leggermi, e questo è certo un buon segno. L’aspetto per il momento più curioso è che, ad oggi, la domanda in assoluto più frequente riguarda la veridicità di ciò che ho scritto:

“E’ tutto accaduto davvero?”

Per rispondere scelgo sempre di utilizzare la risposta che Leslie diede a quella stessa domanda relativamente a Stone Butch Blues:

“Oh, certo che è vero. E’ così vero che sanguina. E allo stesso tempo è una ricosctruzione: mai sottovalutare il potere della fitcion di dire la verità. […] Un viaggio che non è identico al percorso della mia vita, ma che irradia la familiarità profonda dell’esperienza vissuta.”

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Articolo di Antonio Steffenoni per “Il Venerdì” di Repubblica

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«I ragazzi della mia età spesso venivano a chiedermi a quale metà del cielo appartenessi. C’erano i maschi, c’erano le femmine, e c’ero io. Poteva essere questa la risposta? Non nel mondo in cui vivevo.»  «Sei maschio o femmina?» È il 1986 quando Ilenia si sente fare per la prima volta questa domanda. Al momento non sa cosa rispondere, non vuole essere diversa, è e basta. La ricerca di una vera risposta la accompagnerà lungo tutto il cammino attraverso l’adolescenza e verso l’età adulta. Il suo è il viaggio travagliato di una ragazza che sembra avere per la società e per i benpensanti un’unica meta, la prostituzione. Ma Ilenia è una persona che non si arrende e scompiglia fin da subito le carte del destino: nonostante bullismo, discriminazione, violenze fisiche e verbali, si laurea, trova un lavoro e un amore inaspettato, quello per una donna.  Le paure, le battaglie, le ferite, i traguardi di una giovane trans, che come tante altre ragazze XY, lotta per una vita serena e autentica, verso la libertà di genere e il pieno diritto di cittadinanza per le persone transgender nella società civile.

Ciao Leslie!

Ho appena appreso della morte di Leslie Feinberg, attivista americano per le battaglie transgender, femministe, lesbiche, operaie, antirazziste.
Ebbi l’onore di conoscerl* ormai più di dieci anni fa, in occasione della presentazione in Italia di “Stone Butch Blues“, libro per me importantissimo, e di trascorrere giornate e momenti che mai dimenticherò in sua compagnia.
Una grande perdita…
RIP Leslie, saremo sempre con te, ora e sempre “in the struggle”, ora e sempre nello spirito di Stonewall.

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Omo ed eterosessualità. Una rilettura degli orientamenti sessuali ed affettivi in un’ottica “gender variant”

Gender variance” (“variabilità di genere”) è un’espressione utilizzata in diversi ambiti: dalla psicologia alla psichiatria, dall’antropologia fino ai “gender studies”, e può essere indicata come l’attitudine del genere sessuale a manifestarsi in una pluralità di sfumature.

Lo spettro della gender variance ricomprende in sé molte etichette che identificano le diverse identità di genere (spesso  erroneamente definite orientamenti sessuali) includendo quelle oggi più conosciute, come “sissy” (traducibile in italiano con “checca”), “bear” (uomini dall’aspetto virile e dalla corporatura robusta, spesso pelosi, che hanno dato vita ad una comunità sviluppatasi trasversalmente ed afferente al mondo gay), “crossdresser” (chi mette in atto il “crossdressing”, ovvero l’indossare un vestiario comunemente associato al genere opposto), “butch” (lesbica con atteggiamenti ed abbigliamento maschile), “femme” (lesbica con atteggiamento ed abbigliamento femminile che ama le lesbiche butch), “lipstick lesbian” (lesbica con atteggiamento ed abbigliamento femminili che ama lesbiche con le stesse caratteristiche),  “tomboy” (bambina o ragazza che assume atteggiamenti e vestiario comunemente associati al genere opposto), fino ad arrivare a “transgender“.

Etimologicamente, il termine transgender potrebbe essere utilizzato come sinonimo di “gender variance”, ma la prassi d’utilizzo di questa parola negli ultimi anni ha ormai ristretto la sua portata alla condizione di coloro che non si identificano con il genere assegnato alla nascita che, come è noto, in relazione alla ben più ampia realtà della variabilità di genere nell’essere umano, rappresentano solo la punta di un’iceberg.

La portata definitoria della parola transgender resta pur sempre ampia, poiché oggi comprende sia quelle persone che, al termine di un percorso ormonale e chirurgico di “transizione” che può essere MTF (Male To Female, da maschio a femmina) o FtM (Female to Male, da femmina a maschio),  si definiranno semplicemente “neodonne” o “neouomini” (fino a non molto tempo fa definite “transessuali”, termine che sta lasciando gradualmente il posto al più appropriato “transgender”), sia coloro che, pur non riconoscendosi nel genere assegnato alla nascita, intraprendono un percorso di autodeterminazione che decostruisce il modello binario “maschio-uomo” / “femmina-donna”.

Il concetto di variabilità di genere restituisce la complessità dell’essere umano in relazione alle identità di genere, e l’oggettiva impossibilità di ricondurre tale pluralismo identitario ed espressivo alla rigida e binaria schematizzazione  figlia del “genderismo”, ovvero dell’idea che esistano solo due generi sessuali, e che il genere di ognuno, o la maggior parte dei suoi aspetti, scaturisca e sia conseguenza del sesso genetico della persona. E’ infatti dal genderismo che deriva il dualismo sessuale ed affettivo ormai entrato a pieno titolo nell’immaginario collettivo, che prevede due sole opzioni: omosessualità ed eterosessualità.

Alcuni esempi di mistificazioni, spesso accompagnate da un’intento normatorio, figlie del radicamento del dualismo sessuale nell’immaginario collettivo:

  1. Le tante e diverse sfumature che caratterizzano il mondo delle lesbiche spiegano anche le numerose etichette come “butch”, “femme”, “lipstick”, “dike”. Tale complessità viene disconosciuta, appiattita e normatoriamente semplificata dalla visione binaria, per la quale sarebbero lesbiche tutte le persone di sesso cromosomico XX attratte da persone con la medesima caratteristica. Entrambe le partner devono poi aderire al canone estetico e comportamentale che il senso comune definisce “femminile”, pena la marginalizzazione in una comunità di donne che ha introiettato la visione binaria: la ragazza che manifesta un’identità “butch”, viene infatti penalizzata e spesso ostracizzata. “Se devo andare con uomo, vado con un uomo vero!“, è un’affermazione binaria, poiché un atteggiamento, anziché essere vissuto in quanto tale, come semplice caratteristica della persona, viene classificato “maschile” ed immediatamente ricondotto all’idea che i suoi unici e legittimi detentori siano i “maschi-uomini”.
  2. Il rapporto, l’attrazione e l’affettività che legano una lesbica “butch” ed una “femme”, potrebbero ad esempio essere considerati omosessuali, ma, in ottica gender sensitive, anche “eterogenere” ed eteroaffettive. Due “lipstick lesbians” avrebbero invece uno dinamica sì omosessuale, ma che potrebbe essere anche definita anche “omogenere”.                                                                                                                                                                                                                        Accogliere ed estendere un vocabolario più ampio e significante, nuove definizioni, potrebbe essere un primo passo verso la fine di odiosi fenomeni di discriminazione e marginalizzazione interni persino alla comunità LGBT*, che, spesso inconsapevolmente, si fa promotrice del dogma binario.
  3. Discriminazione e marginalizzazione rappresentano un destino anche per i ragazzi gay femminili, o, volendo utilizzare un termine con un’intrinseca connotazione negativa, “effemminati”, ovvero con atteggiamenti ritenuti ad esclusivo appannaggio delle “femmine-donne”. Chiediamoci perché questo femminile debba essere connotato e vissuto tanto negativamente da molti gay, e quanti benefici potrebbero invece derivare da una concezione più fluida del gender in termini di libera espressività.
  4. Molte persone sono convinte che l’attrazione verso una donna transgender MtF denoti omosessualità nei maschi, o eterosessualità nelle donne. “Che cos’ha fra le gambe?”, “E’ nata uomo e sarà sempre un uomo.”, “Si vede che è un uomo!”, sono esempi di ricorrenti affermazioni binarie e genderiste, che ribadiscono il primato assoluto del dato fisico/genetico nella concezione comune. La donna transgender viene quindi ridotta e ricondotta al suo sesso d’origine, o alla sua genitalità, anche quando il suo aspetto, la sua sensibilità e spesso un’intera esistenza ne prendono le distanze. La vita reale di queste donne, così come quella degli uomini trans*, è fatta invece di interazioni che vedono quotidianamente il primato dell’identità sulla genitalità, che una classificazione “gender sensitive” saprebbe meglio connotare e rappresentare. Gli uomini attratti da donne transgender sono infatti, nella stragrande maggioranza dei casi, eteroaffettivi (attratti appunto da ciò che è “eteros”, dal greco «altro, diverso», rispetto a loro), e le donne omoaffettive.
  5. Il fatto che la bisessualità, pur rappresentando la realtà di moltissime persone, non goda della stessa legittimazione dell’omosessualità e dell’eterosessualità nell’immaginario collettivo, è un’altra dimostrazione della pervasività del binarismo. I bisessuali si sentono infatti spesso apolidi in mondo che chiede loro di “scegliere da che parte stare” e che genere amare e “preferire”, finendo spesso con l’essere marginalizzati sia dalla comunità omosessuale che da quella eterosessuale.
  6. Quello bisessuale non è certo l’unico orientamento privo di cittadinanza nello schematizzazione binaria. Uomini che si sentono attratti dal “femminile” in tutte le sue sfumature, sia esso riconducibile ad una donna biologica, ad una donna transgender, o ad un ragazzo. Donne attratte dal maschile, sia esso riconducibile ad un uomo biologico, ad un uomo transgender o ad una lesbica butch. Donne biologiche attratte da donne transgender e viceversa. Uomini e donne transgender reciprocamente attratti.

Gli esempi potrebbero continuare a lungo, portandoci ad un punto d’arrivo che potremmo considerare un auspicio: è necessario superare una riduttiva visione binaria degli orientamenti  che tiene conto, avendo in sé anche un intento normatorio, solo e soltanto del sesso genetico o della conformazione dei genitali delle persone, ignorando tutte le sfumature identitarie. Come già evidenziava Martine Rothblatt ormai quasi vent’anni fa nel suo “L’apartheid del sesso”, non è possibile che sette miliardi di persone possano essere rappresentante da uno schema che prevede due sole opzioni.

L’obiettivo di lungo periodo di una riformulazione “gender sensitive” degli orientamenti non è certo quello di aumentare in maniera esponenziale le etichette, le categorie e le definizioni. L’auspicio è infatti quello di non averne più bisogno in futuro, in un sistema culturale autenticamente libertario e non repressivo di tutt* le identità e gli orientamenti. Ma nel breve periodo le etichette sono necessarie affinché l’immaginario collettivo introietti una fotografia più fedele della straordinaria complessità dell’essere umano.

Già Mario Mieli, in “Elementi di critica omosessuale“, definiva transessualità “la disposizione erotica polimorfa e indifferenziata infantile che la società reprime e che, nella vita adulta, ogni essere umano reca in sé allo stato di latenza oppure confinata negli abissi dell’inconscio sotto il giogo della rimozione“. Secondo Mieli siamo tutti transessuali, nel senso che siamo tutti oltre la “monosessualià” nella quale la “Norma” vorrebbe incasellarci. Riappropriarci quindi del nostro “polimorfismo” originario in un processo di liberazione, ci condurrebbe alla “pansessualità“. Mieli afferma che  “data la contrapposizione storica concreta fra individui che riconoscono i propri desideri omoerotici e altri che invece tassativamente li negano, non si può oggi evitare di distinguere gli omosessuali manifesti dagli eterosessuali“, non trovandosi d’accordo con coloro che invece ritengono che le etichette che definiscono gli orientamenti vadano abbandonate da subito: il rischio di una simile deriva che, utilizzando una definizione più recente, potremmo definire “Queer”, sarebbe infatti quello di un appiattimento della complessità identitaria e degli orientamenti, che potremo permetterci solo e soltanto quando tutt* le identità e gli orientamenti avranno pari dignità sociale e culturale.

Bibliografia

  •  Nanda S., Gender Diversity: Crosscultural Variations,Wavelang Press, 1999.
  •  Rothblatt M., L’apartheid del sesso, Il Saggiatore, 1997.
  • Mieli M., Elementi di critica omosessuale, Feltrinelli editore, 2002.
  • M.Mead, Sesso e temperamento, Il Saggiatore Tascabili, 2009.
  • L. Feinberg, Stone Butch Blues, Il dito e la luna, 2004.