Checco Zalone, a Sanremo, con le persone transgender, hai sbagliato!

Sono molto arrabbiata per l’esibizione di Checco Zalone a Sanremo.

Sarà anche vero che era partito con il proposito di combattere gli stereotipi e i pregiudizi, ma ha finito per rafforzarli.

Ha fatto un danno enorme a una comunità, quella transgender, che in Italia conta più di 400 mila persone. E, più di tutto, ha ferito le persone trans più giovani nel profondo. Ragazze che si mettono in contatto con me con le lacrime perché prese in giro dai compagni, stamattina, appena giunte in classe. Derise con l’accento sudamericano e trattate come lavoratrici del sesso. Complimenti davvero, Sanremo!

Cara Drusilla, perché a Sanremo non mi sei piaciuta

UNA COMODA RIVOLUZIONE

Cara Drusilla Foer,

per “dare un senso” alla tua presenza su quel palco, avresti dovuto osare una parola di solidarietà e vicinanza alla comunità transgender e non binaria italiana, offesa e ferita dalla performance di Checco Zalone della sera precedente.

So che pronunciare la parola “trans” sul palco dell’Ariston sarebbe stato sconveniente e che avrebbe urtato i benpensanti, ma è così che avresti dato contenuto reale a quell’aggettivo da te pronunciato con tanta e coinvolgente enfasi: “rivoluzionario”.

Che, certamente, pronunciato come hai fatto tu è anche bello da ascoltare e ci suona bene, ma poi non mantiene la sua promessa. Perché accennare appena al tema fluidità, per poi immediatamente abbandonarlo e rivelarci che siamo tutti unic*, è davvero troppo comodo. E le rivoluzioni, quelle vere, non stanno in deludenti ossimori.

Sono molto d’accordo con te quando affermi che dobbiamo prendere tutte le nostre parti e abbracciarle, ogni singolo pezzo del mondo che ci abita, per poi prenderci per mano e portarle fuori.

È quello che ci diciamo da anni nella nostra comunità, ma dobbiamo farlo in contesti protetti, perché fuori corriamo seri pericoli per la nostra incolumità.

Dici che “dovremmo smettere di farci la guerra”, altra frase buona per tutte le occasioni e che non scontenta nessuno, ma avresti dovuto dire che noi la guerra non la facciamo, la subiamo.

Dire che siamo tutt* unic* è come dire che siamo uguali, ed è molto comodo perché assolve tutti, ma tu sai bene che non è così. C’è chi agisce guerra e violenza in questo paese, e chi la subisce.

Per questo, 50 anni fa, proprio a Sanremo, nasceva il movimento omosessuale, e sarebbe stato coraggioso da parte tua ricordarlo su quel palco. Ma il coraggio di un omaggio a un movimento che celebrava quella parolina che a te non piace – “diversità” – sarebbe stato scomodo, e in effetti coraggio e comodità non vanno insieme.

Peccato, perché – se tu stai su quel palco a parlare di unicità – lo devi a chi 50 anni fa si è esposto in nome di una differenza, rischiando di perdere tutto ciò che aveva.

Ti apprezzo come artista e continuerò a seguirti con affetto, ma non con l’entusiasmo con cui ti ho seguita fino ad oggi. La sensazione che mi lasci dopo questo Sanremo è quella dell’ennesima occasione persa.

Drusilla Foer non è una persona transgender. La sua presenza a Sanremo è davvero “traguardo di inclusività”?

Adoro Drusilla Foer e reputo Gianluca Gori un artista eccezionale.

Tuttavia, in un’ottica di avanzamento delle istanze LGBT+ e dei diritti civili, parlerei di rainbowashing, mi dispiace. Ricordo che Gianluca Gori non è una persona transgender, come qualche media ha erronaemente veicolato in queste ore.

Ricordo sommessamente anche che MJ Rodriguez negli USA è stata la prima donna transgender a vincere i Golden Globe, – e scusate se è poco, – è che anche a Sanremo sarebbe ora di vedere artist* transgender, visto che il talento e la bravura nella nostra comunità non mancano.

Conchita Wurst e le ricadute mediatiche della libera espressione di genere

Articolo pubblicato sulla rivista di cultura LGBT “Il Simposio”

Conchita Wurst, l’artista che ha vinto l’ultima edizione dell’Eurovision Song Contest dedicando la sua vittoria “a tutti coloro che credono in un futuro di pace e libertà”, ha portato il suo inno alla libera espressione di sé a più di 195 milioni di spettatori in 41 Paesi, gridando: «We are unity and we are unstoppable!» («Siamo un’unità e siamo inarrestabili!»).

L’arrivo di Conchita all’ultimo festival di Sanremo è stato anticipato da una vera e propria campagna contro la sua partecipazione ad opera della galassia dell’integralismo cattolico (con tanto di petizione sul sito “Change.org”, “per chiedere l’annullamento della partecipazione di Conchita Wurst a Sanremo. Contro l’ideologia del gender e contro l’omosessualismo militante, e per la difesa del diritto naturale”).

Sul palco del teatro Ariston, la cantante ha portato il brano “Heroes”, per poi sostenere un’intervista con Carlo Conti, che si è rivolto a lei chiamandola con il suo nome anagrafico, “Tom”, scelta che ha scatenato moltissime critiche da parte della comunità LGBT italiana. All’immancabile e provocatoria domanda di Conti sulla sua barba e su quanto l’abbia aiutata nella vittoria all’Eurovision, Conchita ha risposto con invidiabile autocontrollo: «Sì, senza non sarei stata la stessa».

La domanda di Conti risultava prevedibile perché la barba costituisce l’elemento estetico che rende Conchita “disturbante” per un pubblico mediamente genderista e binario. Il “genderismo” è infatti la credenza  che il genere sia binario, e che esisterebbero pertanto due soli generi, maschile e femminile; questa visione si contrappone nettamente all’idea di “gender variance” o variabilità di genere, che contempla invece sfumature di genere potenzialmente infinite.

La nota cantante austriaca sfugge al dogma binario dei generi definendosi, e in questo modo autodeterminandosi, «gender neutral», ovvero neutrale rispetto alla definizione di uomo e donna, pur preferendo pronomi e aggettivi declinati al femminile, e facendosi portatrice di un’immagine che prevede la compresenza di caratteristiche femminili e maschili. Questo ha scatenato un coro di critiche da parte dei lettori di quotidiani online in modo politicamente trasversale: la barba di Conchita non va giù a molti nemmeno a sinistra che, in barba (è il caso di dirlo!) al “politically correct”, si sono scatenati in commenti di (virtuale) disapprovazione. Persino nelle community  dedicate alle persone trasngender troviamo critiche feroci: molte persone trans ritengono Conchita dannosa per l’immagine della “categoria” nell’immaginario collettivo. “Le persone fanno già fatica a capire noi… cosa penseranno vedendo lei?”, scrive un’iscritta ad un gruppo Facebook dedicato ai percorsi di adeguamento di genere.

L’imprinting genderista, che tutti abbiamo ricevuto, ci porta a provare un fastidio istintivo verso coloro che si discostano dalle aspettative di genere nella nostra società. I “trasgressori di genere” non piacciono e probabilmente continueranno a non piacere per molto tempo.

Ma da un imprinting culturale fortunatamente ci si può liberare, lavorandoci.

Familiarizzare con l’immagine di Conchita Wurst e, nella vita reale, con tutte quelle persone portatrici di una sfumatura di genere non binaria può infatti rappresentare un ottimo antidoto a quell’intolleranza che tutt* noi, “di default”, abbiamo introiettato.

Visitando il sito ufficiale dell’artista apprendiamo che Conchita nasce come «una dichiarazione di tolleranza, perché non si tratta di apparire, ma di essere un essere umano. Ognuno dovrebbe vivere la vita come meglio crede, a patto che nessuno si faccia male o ci siano limitazioni nel proprio modo di vivere».

Un principio che dovrebbe essere universalemente riconosciuto, condiviso e applicato, anche in relazione all’espressione di genere.