Conchita Wurst e le ricadute mediatiche della libera espressione di genere

Articolo pubblicato sulla rivista di cultura LGBT “Il Simposio”

Conchita Wurst, l’artista che ha vinto l’ultima edizione dell’Eurovision Song Contest dedicando la sua vittoria “a tutti coloro che credono in un futuro di pace e libertà”, ha portato il suo inno alla libera espressione di sé a più di 195 milioni di spettatori in 41 Paesi, gridando: «We are unity and we are unstoppable!» («Siamo un’unità e siamo inarrestabili!»).

L’arrivo di Conchita all’ultimo festival di Sanremo è stato anticipato da una vera e propria campagna contro la sua partecipazione ad opera della galassia dell’integralismo cattolico (con tanto di petizione sul sito “Change.org”, “per chiedere l’annullamento della partecipazione di Conchita Wurst a Sanremo. Contro l’ideologia del gender e contro l’omosessualismo militante, e per la difesa del diritto naturale”).

Sul palco del teatro Ariston, la cantante ha portato il brano “Heroes”, per poi sostenere un’intervista con Carlo Conti, che si è rivolto a lei chiamandola con il suo nome anagrafico, “Tom”, scelta che ha scatenato moltissime critiche da parte della comunità LGBT italiana. All’immancabile e provocatoria domanda di Conti sulla sua barba e su quanto l’abbia aiutata nella vittoria all’Eurovision, Conchita ha risposto con invidiabile autocontrollo: «Sì, senza non sarei stata la stessa».

La domanda di Conti risultava prevedibile perché la barba costituisce l’elemento estetico che rende Conchita “disturbante” per un pubblico mediamente genderista e binario. Il “genderismo” è infatti la credenza  che il genere sia binario, e che esisterebbero pertanto due soli generi, maschile e femminile; questa visione si contrappone nettamente all’idea di “gender variance” o variabilità di genere, che contempla invece sfumature di genere potenzialmente infinite.

La nota cantante austriaca sfugge al dogma binario dei generi definendosi, e in questo modo autodeterminandosi, «gender neutral», ovvero neutrale rispetto alla definizione di uomo e donna, pur preferendo pronomi e aggettivi declinati al femminile, e facendosi portatrice di un’immagine che prevede la compresenza di caratteristiche femminili e maschili. Questo ha scatenato un coro di critiche da parte dei lettori di quotidiani online in modo politicamente trasversale: la barba di Conchita non va giù a molti nemmeno a sinistra che, in barba (è il caso di dirlo!) al “politically correct”, si sono scatenati in commenti di (virtuale) disapprovazione. Persino nelle community  dedicate alle persone trasngender troviamo critiche feroci: molte persone trans ritengono Conchita dannosa per l’immagine della “categoria” nell’immaginario collettivo. “Le persone fanno già fatica a capire noi… cosa penseranno vedendo lei?”, scrive un’iscritta ad un gruppo Facebook dedicato ai percorsi di adeguamento di genere.

L’imprinting genderista, che tutti abbiamo ricevuto, ci porta a provare un fastidio istintivo verso coloro che si discostano dalle aspettative di genere nella nostra società. I “trasgressori di genere” non piacciono e probabilmente continueranno a non piacere per molto tempo.

Ma da un imprinting culturale fortunatamente ci si può liberare, lavorandoci.

Familiarizzare con l’immagine di Conchita Wurst e, nella vita reale, con tutte quelle persone portatrici di una sfumatura di genere non binaria può infatti rappresentare un ottimo antidoto a quell’intolleranza che tutt* noi, “di default”, abbiamo introiettato.

Visitando il sito ufficiale dell’artista apprendiamo che Conchita nasce come «una dichiarazione di tolleranza, perché non si tratta di apparire, ma di essere un essere umano. Ognuno dovrebbe vivere la vita come meglio crede, a patto che nessuno si faccia male o ci siano limitazioni nel proprio modo di vivere».

Un principio che dovrebbe essere universalemente riconosciuto, condiviso e applicato, anche in relazione all’espressione di genere.