Presentazione del libro “Diurna. La transessualità come oggetto di discriminazione”

Sabato 23 marzo 2019 alle 18:30 presso Il Guado – Via Soperga 36

Evento Facebook

Sarà presente l’autrice Monica J. Romano.
Presenta e modera Nathan Bonnì.
Intervengono Rosaria Guacci, Silvia Molè e Laura Caruso.

In una stagione che vede i movimenti LGBT e femministi attraversati e animati da accesi confronti su temi sensibili e divisivi (pensiamo in particolare a GPA, sex working e genitorialità), le persone transgender risultano troppo spesso essere oggetto di (spesso disinformate) discussioni in atto ma (quasi) mai soggetti ascoltati che esprimono e definiscono uno sguardo sul mondo.
Il Circolo culturale Rizzo Lari, da anni promotore a Milano di visioni e comunità sovversive di norme/ teologie e simpaticamente (ma autenticamente) controcorrente, sceglie di ribaltare la prospettiva e di trasformare gli oggetti delle disinformate narrazioni in soggetti narranti, restituendo la parola alle pensatrici e ai pensatori transgender.

Ripartiamo da una delle nostre teoriche, Monica J. Romano, donna transgender e attivista, responsabile del Progetto Identità di Genere e consigliera onoraria dell’associazione e dal suo saggio “Diurna”, pubblicato nel lontano aprile 2008 da un coraggioso piccolo editore milanese.

Nel considerare le cause della marginalizzazione delle persone trans* nella società occidentale, il saggio si sofferma sui temi che seguono, che saranno oggetto della discussione che seguirà la presentazione:

* il fenomeno della discriminazione delle persone transgender nel mondo del lavoro, sia per ciò che concerne la ricerca di un lavoro (la discriminazione all’ingresso del mercato del lavoro), sia per il mantenimento del posto di lavoro (il fenoneno del mobbing);

* il fenomeno della discriminazione presso le agenzie di socializzazione, come la scuola e l’università;

* il distorcimento e l’alterazione della realtà transgender nell’immaginario collettivo ad opera principalmente dei mass media, che per anni hanno promosso un’idea delle persone trans* ad uso e consumo della morbosità di lettori e telespettatori e tralasciato invece, fatte salve rare eccezioni, un’informazione corretta sulle tematiche legate all’identità di genere;

* il binomio “transgender = prostituta” presente nell’immaginario collettivo, le sue origini e le ricadute sulla vita quotidiana delle persone transgender;

* il tema della transfobia e l’elevatissimo tasso di omicidi di persone transgender, soprattutto donne, silenzioso massacro che ogni anno raggiunge numeri impressionanti;

* l’importanza dell’esistenza di associazioni e gruppi transgender dove le persone possano confrontarsi e interagire;

* l’istanza di depsichiatrizzazione della condizione trans*;

* l’elaborazione di una cultura transgender, di nuove visioni e linguaggi, in un’ottica di decostruzione del sistema culturale e di significati binario nel quale siamo immersi;

* la transfobia interiorizzata e la ricerca dell’invisibilità sociale da parte di molte persone transgender;

* l’analisi dell’apporto che ci viene offerto dalla storia e dall’antropologia, di quelle culture anche millenarie che prevedevano generi alternativi al binomio uomo/donna, dell’esistenza quindi di persone e culture “transgender ante litteram”;

* l’elaborazione di un manifesto politico, il “Manifesto per la libertà di genere”, che concludeva il libro auspicando una rivoluzione delle coscienze e, conseguentemente, del sistema sociale e culturale.

“La piccola principe” di Danna: quando il femminismo dogmatico vorrebbe delegittimare il diritto di parola per le persone trans

Il libro La piccola principe. Lettera aperta alle giovanissime su pubertà e transizione (VandA ePublishing, Milano 2018) di Daniela Danna, ricercatrice in Sociologia generale presso l’Università degli studi di Milano, analizza il fenomeno dell’aumento significativo del numero di persone che – in Paesi come Svezia, Finlandia, Regno Unito, Nuova Zelanda e Canada – accedono a percorsi di transizione di genere in direzione FtM (Female to Male) durante l’adolescenza. 

La premessa indispensabile a ogni considerazione sul testo di Danna è che nessuno – tantomeno i rappresentanti delle associazioni transgenere e gli attivisti T italiani – intende negare il fenomeno sociale a cui Danna fa riferimento: l’aumento di richieste di accesso ai percorsi di transizione e autodeterminazione FtM da parte di adolescenti e famiglie esiste, è documentato e inizia a essere una realtà anche in Italia.

Cosa, questa, che sanno bene tanto i professionisti (psichiatri, psicologi, endocrinologi, avvocati, giudici) che lavorano a stretto contatto con la realtà transgenere, quanto gli operatori e gli attivisti che da anni lavorano nelle associazioni. Tenendo conto del fatto che in gioco c’è la salute di persone adolescenti, il fenomeno merita certamente attenzione, prudenza, studio e grande cautela.

Il dibattito e il confronto su un tema così delicato necessitano di competenze trasversali (mediche, giuridiche, sociali, culturali, politiche), di una visione non dogmatica, di esperienza diretta e documentata con il fenomeno e con le persone a cui ci riferiamo e di onestà intellettuale. Elementi, questi, che nel saggio di Daniela Danna mancano

L’analisi della sociologa milanese – pur ricca di importanti considerazioni sulle conseguenze della misoginia che tutti, nessuno escluso, abbiamo introiettato – risulta infatti parziale e strumentale. Troppo spesso, inoltre, impone verticalmente, quasi muscolarmente, visioni dogmatiche («Non esistono bambini e adolescenti trans. Esistono bambini e adolescenti effemminati e bambine e adolescenti mascoline» – «Il concetto di ‘cis’ non ha senso»), stereotipate («Invece ci sono donne trans ipercurate, depilate al laser, manierate e seduttive, quindi molto più ‘cis’ di noi lesbiche anche se sono trans!») e oscurantiste («Possiamo solo rappezzare mostri come Frankenstein da pezzi di da pezzi di cadaveri: gli esseri viventi non nascono in laboratorio»).

Dalla lettura di questo saggio deriva l’impressione che i percorsi di transizione degli adolescenti vengano usati come grimaldello per scardinare l‘impianto teorico legittimante la stessa esistenza delle persone T sul piano giuridico, scientifico, sociale: a essere messa in discussione è, infatti, l’identità di genere attraverso la selezione capziosa di dati e ricerche.

Danna riporta in auge l’errata identificazione del fenomeno della variabilità di genere con quello dell’omosessualità, riconoscendo nella misoginia interiorizzata la causa dei percorsi di transizione e autodeterminazione FtM. Ritorna poi – ignorando decenni di studi e letteratura scientifica che avvalorano la tesi che la variabilità di genere non rientra nel novero delle patologie mentali ma, semmai, delle variazioni naturali della concezione comune e binaria dei generi – sulla “questione delle cause”, mettendo all’angolo l’autodeterminazione delle persone T. 

Mette, infine, in dubbio la stessa presa di parola delle persone T e la possibilità per le persone T di definirsi come gruppo sociale che nomina la sua stessa oppressione, cancellando decenni di movimento, di comunità e di subultura transgenere italiana e internazionale. «Questa gran confusione – si legge nel saggio – suggerisce sia meglio buttar via la parolina ‘cis’, e cestinare anche la credenza che chi è cis goda di un privilegio nei confronti di chi è ‘trans’».

Non occorre essere sociologi per sapere che qualsiasi gruppo sociale, qualsiasi minoranza ha avuto e ha bisogno di parole per definire la propria differenza rispetto alla maggioranza: la parola cisgender potrebbestare a transgender come, ad esempio, la parola omosessuale sta a eterosessuale. E, se la parola cisgender non piace a qualcuno, ce ne sono tante altre. Negli anni ’90 del secolo scorso e nel primo decennio del 2000, nel gergo della comunità T, utilizzavamo espressioni (spesso con il sorriso sulle labbra) come “donna genetica” o “uomo genetico” per definire chi non era transgenere, o “ragazze XY” o “donne XY” per definire le donne transgenere.

Il linguaggio cambia con i decenni e le generazioni. A non cambiare è il bisogno della comunità T (e di qualsiasi minoranza) di definire se stessa e di significare il mondo con il suo sguardo. Ora è proprio questo nostro bisogno di parlare di noi e per noi che nel saggio di Daniela Danna viene messo in discussione e delegittimato.

Il problema sembra non essere la parola cisgender, ma l’idea che le persone transgenere prendano la parola come gruppo sociale. Cercare di impedire e di frenare l’articolazione di nuovi linguaggi, che nascono dal bisogno di un gruppo di definire la sua oppressione nel sistema sociale, significa promuovere l’idea che il linguaggio delle minoranze e delle subculture vada, in qualche modo, riconosciuto e validato da autorità esterne, controllato, se non censurato

Danna fa, insomma, ciò che il patriarcato fa da sempre con la presa di parola delle donne, prendendo pretestuosamente un tema delicatissimo che per essere affrontato richiederebbe, più di tutto, l’assenza di posizionamenti ideologici

Sull’autodeterminazione – Estratto dal libro “Storie di ragazze XY”

“«Lei è cosciente del fatto che non sarà mai una donna
biologicamente tale?»
La psichiatra dell’ospedale era solita rivolgermi domande di questo tenore.
«Sono transessuale, non interdetta», non era la risposta
accomodante che mi avrebbe aiutato a ottenere l’autorizzazione al trattamento ormonale, ma ormai mi era uscita dalla bocca.
«Lei è mio paziente da ormai un paio di mesi, so benissimo che non le mancano gli strumenti culturali e cognitivi, quindi non sia protervo e ostile. Mi parli invece delle caratteristiche della sua personalità che lei ritiene maschili.»

Detestavo con tutte le mie forze quella donna che si rivolgeva a me dandomi il maschile. Non era forse pagata per capirmi e aiutarmi a stare meglio? Esitai.

«Coraggio, sa che qui non esistono risposte giuste
o sbagliate.»

[…]

Preda della paura, ripensai alla mia prima volta in associazione. Dopo che tutte le ragazze si erano presentate, Dalila, accendendosi una Gitane, ci rivolse una domanda:

«Non trovate curioso che la nostra sia l’unica patologia psichiatrica a essere curata con un cambiamento somatico, del corpo? Mie care, la nostra non è una malattia psichiatrica, sarà derubricata dall’elenco delle patologie entro qualche anno, proprio com’è successo per l’omosessualità.
Voi non siamo malate. Oggi noi non possiamo decidere liberamente dei nostri corpi, ma entro qualche anno le cose cambieranno. Tenetelo a mente durante tutto il vostro iter».

Pensai che, se Dalila aveva ragione, la psichiatra davanti a me era solo la sedicente depositaria di un sapere del tutto presunto sulla mia condizione, che però aveva il potere di sbarrarmi la strada. Dovevo quindi aggirare l’ostacolo, mostrandomi deferente nei suoi confronti, come piace ai medici, ed evitando
lo scontro.

«Sono disordinata e non amo i lavori domestici, questa potrebbe essere una caratteristica maschile»,
dissi mettendo da parte l’intelligenza e accennando un sorriso complice e un po’ ebete.
«inoltre sono consapevole del fatto che non potrò mai partorire un figlio e avere il ciclo mestruale.»
Evitai di aggiungere che le consideravo due benedizioni.

«Lei è cosciente del fatto che sarà oggetto di scherno, vessazioni, discriminazioni, che le sarà difficile trovare un lavoro, un compagno, che potrebbe non avere mai una vita dignitosa? Lo capisce?»

(Grande stronza brutta come la morte, spero che
tutto questo accada a te.)

«Certo, so che il percorso che intraprenderò sarà una strada in salita.»”

Estratto da Trans. Storie di ragazze XY di Monica Romano per Ugo Mursia Editore.

Quando scoprii l’orgoglio – Estratto da “Storie di ragazze XY”

“Ci fu una volta in cui, arrivata alla fine di una discesa in un sentiero, mi accorsi troppo tardi della loro presenza. Mi avevano già visto da lontano ed era troppo tardi per tornare indietro: non avevo scelta.
Percorsi la stradina sterrata, che era strettissima, sentendo le loro risate già da lontano.
Passo dopo passo, mi sentivo persa.
Quando gli arrivai quasi di fronte, improvvisamente, scese il silenzio. Erano lì, tutti e sei, a pochi centimetri da me: le gambe mi tremavano.
Mi osservavano, due di loro con la bocca semiaperta, scrutandomi come si fa con un buffo animale esotico in qualche zoo.
Sentivo i loro occhi sulle mani, sulle gambe, sul collo; non riuscivo a respirare e temevo che quel momento non finisse mai.
Appena me li lasciai alle spalle, un boato improvviso di voci cavernose scoppiò in una risata collettiva. Seguirono versi, parolacce, grugniti lanciati verso la mia schiena.
Il cielo era grigio e di lì a poco avrebbe iniziato a piovere.
Doveva essere bellissimo, pensai, immergersi nel mare accarezzati dalla pioggia. Così rividi per un momento il sorriso di Ottavio.

Poco dopo mi resi conto di essere ferma, le mie gambe mi avevano tradito e la mia bocca stava per fare la stessa cosa. Mi girai, puntando il mio sguardo dritto verso il capo di quel branco. Improvvisamente mi sentivo benissimo.

«Bocca di rosa, che cazzo hai da guardare? Si è arrabbiata!».
Riuscivo a sentire il rumore del mare e a sorridere.
«Chiudi quella bocca, tenerla aperta come una
presa d’aria ti fa sembrare ancora più stupido.»

Si guardarono l’uno con l’altro, tradendo incredulità. Nessuno aveva più voglia di ridere.
Quando vidi i loro sguardi spingersi oltre a noi per vedere che non ci fosse nessun altro, capii di essere in pericolo.
La mia fu una corsa spasmodica ma inutile. Sentii la maglietta che mia nonna mi aveva regalato strapparsi e mi ritrovai a terra. il primo calcio fu quello che mi fece più male, sentii l’aria che avevo nella pancia uscirmi dalla bocca. Cercai di proteggermi chiudendomi a conca con i gomiti e le ginocchia,
così mi rimisero in piedi. sentii l’orecchio destro fischiare
fortissimo dopo uno schiaffo dato male. Provai a dire qualcosa, ancora oggi non so perché, ma l’unica parola che mi uscì fu un biascicato «No».
Un pugno nella bocca mi rese muta. Sentivo il sapore del mio sangue mentre lo deglutivo per non soffocare, cercando di tenermi in equilibrio con le braccia.
«Che cosa sei, una ballerina?»
Lo sguardo del loro capo era pieno di un odio disperato
che allora non potevo comprendere.

[…]

Pestata, malconcia e dolorante, avrei avuto tutte le ragioni per sentirmi triste quell’estate. Invece mi sentivo bene e solo anni dopo ne avrei compreso il motivo: per la prima volta in vita mia avevo avuto la forza di reagire, di alzare la testa, di tentare di difendermi da qualcuno che voleva farmi del male.
Avevo rischiato grosso con quei brutti ceffi, ma ne era valsa la pena.
Non ero più una vittima inerme alla mercé di chiunque incrociasse i miei passi. il silenzio e la vergogna non mi avrebbero mai più reso complice di chi quotidianamente mi mortificava, spegnendomi poco a poco. Potevo smettere di avercela con me stessa e uscire a testa alta: avevo scoperto l’orgoglio.”

Estratto da “Storie di ragazze XY” di Monica Romano per Ugo Mursia Editore, Milano, 2015.

Sull’amore fra persone transgender – Estratto da Gender (R)Evolution

Dal mio ultimo libro Gender R- Evolution, la mia storia di un amore, quello per un #uomo #transgender, che ho scelto di chiamare “Mister”. L’amore fra due persone #transgender è una realtà ancora tutta da vivere, raccontare, portare nel nostro immaginario.

“In quella casa nascosta da un uliveto e chiusa per gran parte dell’anno, dove intuivo lo scorrere del tempo attraverso la luce filtrata dalle persiane, la sete di noi si acquietava solo dopo aver fatto toccare alba e tramonto, fra sieste, spuntini, bicchieri di vino e risate di vita e gratitudine. Nel tenermi stretta, nell’afferrarmi, dominarmi e proteggermi, c’era tutta la sua
forza virile, assieme alla totale, quasi devota, attenzione – fisica, mentale e spirituale – al mio piacere. Con lui c’era amore e animalità come con nessun altro e questo lo sapeva bene, volendolo scoprire, orgoglioso, ogni volta come fosse la prima.
Lui su di me, le mie cosce bramanti e avvinghiate alla sua vita, mentre gli accarezzavo la testa e lo chiamavo con gli occhi, quell’esplosione di sensi che gli procuravo con compiaciuta sapienza, erano idillio. Il nostro piccolo sogno di angeli carnali e appassionati era simile a un dipinto prezioso che, in tutti quegli anni, avevamo custodito nel segreto e preservato in ogni modo dalla vita, al riparo dagli altrui sguardi bramanti un effimero sapere.

[…]

Una donna dal viso segnato, avvolta in uno scialle nero di frange e i lunghi capelli argento lasciati sciolti intonava il fado, incantando tutti gli avventori del ristorante. Lisbona ci aveva accolto come di consueto, con i suoi tetti ocra e pastello, il ricordo di imprese marinaresche e quella sua malinconia. Ci eravamo appena congedati da una stradina che profumava di
spezie, e Mister aveva faticato a riprendersi la mia attenzione: mi ero dilettata per tutto il pomeriggio in quei piccoli negozi dove si vendevano stoffe, noci di cocco, film indiani, henné, patate dolci, manghi.
– Sei una donna che non finirà mai di stupirmi, lo sai?
Elegante e classico nella sua giacca in tweed, cravatta in garza a giro inglese e fascia nera al posto della cintura, mi versava del Barca Velha, mentre gli facevo cenno di non esagerare, ricordandogli contenta quanto ci piacesse girovagare e fare i nomadi per città straniere.”