La retorica del “razzismo al contrario”

Tutta l’insopportabile retorica del #RazzismoAlContrario non è altro che una pratica dialettica – vecchia quanto la discriminazione – utilizzata per tappare la bocca delle #minoranze.

Sei una donna e denunci le diseguaglianze di #genere?
Vieni accusata di odiare gli uomini.
Denunci lo sfruttamento nel lavoro dei #migranti?
Ce l’hai con gli italiani.
Sei #LGBT e chiedi il matrimonio egualitario?
Vuoi demolire la famiglia eterosessuale.
Sei #transgender e denunci meccanismi di oppressione legati alla tua condizione? Ce l’hai con le persone #cisgender.

Così il problema diventi tu e non il fenomeno discriminatorio e oppressivo in sè, che è invece il problema reale.

Si chiama colpevolizzazione del vittima, ed è un meccanismo insidiosissimo e dal quale proteggersi, soprattutto quando si fa politica e attivismo per i diritti e l’identità personale di una minoranza.

 

Manifesto per la libertà di genere. Seconda parte: dignità umana e rivoluzione culturale.

Martha Nussbaum, da anni impegnata a costruire un nuovo progetto etico-politico volto a dare un effettivo spessore al concetto di dignità umana e di giustizia sociale, riformula il concetto di dignità rivalutandone i presupposti. Dimostrando che anche nella più equa delle società contemporanee unico destinatario dei diritti individuali è l’individuo razionale, consapevole ed indipendente, Nussbaum concentra la sua attenzione su quegli individui titolari solo nominalmente di diritti considerati fondamentali: bambini, anziani, donne, persone non autosufficienti, persone che vivono in culture non occidentali. Obiettivo di questa elaborazione è l’individuazione di modalità che conservino la forza universalistica dei diritti e, nello stesso tempo, facciano sì che questi realmente garantiscano la dignità umana al di là delle differenze. Il raggiungimento di quest’obiettivo è possibile, secondo Nussbaum, nel momento nel quale ci si chiede se le persone in una determinata società siano davvero messe in grado di essere e di fare ciò cui aspirano, ovvero ampliando la nozione di beni primari fino a ricomprendervi quella di capacità (Nussbaum, 2002).

L’approccio delle capacità, in ambito politico, si basa sull’intuizione di fondo per la quale alcune facoltà umane impongono l’esigenza morale di essere sviluppate: la possibilità di vivere una vita di normale durata, il poter godere di una buona salute, di un’integrità fisica, della possibilità di coltivare sensi, immaginazione e pensiero, di poter provare ed esprimere sentimenti, di dar vita ad un proprio concetto di bene, di provare senso di appartenenza e di avere controllo del proprio ambiente in senso politico (poter partecipare alle scelte politiche) nonchè materiale (avere un concreto in quanto realizzabile diritto di possesso così come di un lavoro degno di un essere umano). Gli esseri umani sono creature tali che, se fornite del giusto sostegno educativo e materiale, di quegli elementi necessari ad un funzionamento autenticamente umano, possono essere pienamente in grado di assolvere le funzioni sopra citate. Diversamente, quando queste facoltà sono private delle basi indispensabili al proprio sviluppo, esse diventano infeconde e mutilate, in qualche modo l’ombra di se stesse.

Nell’analisi di Nussbaum le capacità sono dunque il presupposto irrinunciabile delle facoltà umane: al di sotto di un certo livello di capacità, di una certa soglia, non è possibile sviluppare quelle facoltà sopracitate che impongono l’esigenza morale di essere sviluppate e non è quindi più possibile parlare di umana dignità.

Partendo da questa elaborazione del concetto e dignità è possibile affermare che l’oppressione spinge gli individui transgender al di sotto di quel “livello di capacità”, presupposto irrinunciabile per Nussbaum alla dignità umana.

L’oggettivazione e la manifesta dominazione dei gruppi disprezzati che vigevano nell’Ottocento, sono secondo Young oggi meno violente, poichè a livello di pensiero è emersa un’adesione al principio di uguaglianza universale. Tuttavia razzismo, sessismo, maschilismo, omofobia, transfobia, giovanilismo ed integrismo non sono scomparsi, sono semplicemente entrati nella clandestinità e si annidano in abitudini quotidiane e significati culturali, producendo comunque oppressione. L’unico modo per estirpare tali pratiche è renderle moralmente condannabili, privarle di quella legittimazione e di quella forza che sono comunque originate in ambito culturale, lavorando ad una rivoluzione culturale, che a sua volta richiede una rivoluzione delle soggettività. Solo modificando direttamente le abitudini culturali si modificheranno le oppressioni che esse producono e rinforzano; ma la modificazione delle abitudini culturali può avvenire soltanto se gli individui prendono coscienza delle proprie personali abitudini culturali e si impegnano a modificarle.

Il termine transgender nasce da quell’esperienza che W.E.B Du Bois ha chiamato “doppia coscienza”, che si forma quando l’individuo trova il proprio essere definito da due culture, quella dominante, volentemente o nolentemente interiorizzata, e quella subalterna del gruppo di appartenenza. I gruppi culturalmente oppressi sono spesso socialmente segregati e relegati in specifiche occupazioni in base alla divisione sociale del lavoro: ciò permette loro di comunicare ed elaborare una propria cultura. Il movimento transgender negli anni ’80 nasce da quella cultura subalterna che ha permesso alle persone di iniziare ad elaborare una propria definizione di sè proprio partendo dal nome che identifica la loro specificità: non più transessuale, termine appiccicato e coniato dal gruppo dominante, ma transgender.

L’autocoscienza sul tema della transfobia potrebbe essere fra le strategie più importanti e produttive per realizzare una rivoluzione culturale di soggetti e culture. La transfobia è una delle più forti esperienze di abiezione, poichè pone l’attenzione su problemi legati all’identità di genere in una società genderista e fortemente basata da una regolazione dei generi senza ambiguità. La variabilità di genere, il transgenderismo provocano pertanto un’angoscia speciale, perchè turbano l’ordine dei generi: poichè l’identità di genere è il cuore dell’identità di ciascuno, la transfobia sembra toccare il cuore stesso dell’identità.

Le pratiche messe a punto dal movimento transgender, in particolare quella dell’ autocoscienza di gruppo, offrono il modello di un metodo che nei fatti sta attuando questa rivoluzione prima delle soggettività e, conseguentemente, del contesto culturale di riferimento. Per l’analisi di questo modello si considererà il caso italiano.

A partire dal 1998 le associazioni transgender italiane inaugurano l’esperienza dei gruppi AMA (Auto Mutuo Aiuto) [1].

I primi gruppi AMA riservati a persone transgender nascono a Genova e Milano, e si diffondono rapidamente nelle maggiori città italiane. Nell’ambito di questi constesti le persone transgender mettono in comune le proprie esperienze di frustrazione, infelicità ed angoscia arrivando a scoprire che le loro storie , così personali, sono strutturate da un comune schema di oppressione.

Così, nell’ambito dei gruppi AMA, si inizia a fare anche “autocoscienza di gruppo”. Quet’espressione fu utilizzata per la prima volta dal movimento delle donne negli anni sessanta.

Proprio come le donne anche molte persone transgender iniziano a scoprire che “il personale è politico”, che ciò che in origine avevano vissuto come un problema privato e personale, in realtà possiede dimensioni politiche. Aspetti della vita sociale, che sembrano dati naturali, vengono così tematizzati e si rivelano nella loro natura di costrutti sociali, rendendo visibile lo schema di oppressione.

In questo modo molte persone transgender italiane sono arrivate a definire e ad articolare le condizioni sociali della loro oppressione e politicizzare la cultura optando per forme di attivismo che sfidino l’imperialismo culturale.

Nel processo di politicizzazione della cultura c’è un momento che predede quello terapeutico: il momento dell’affermazione di un’identità positiva da parte di coloro che vivono su di sè l’imperialismo culturale. La presunzione di universalità della prospettiva e dell’esperienza dei privilegiati viene scalzata quando gli oppressi stessi ne mettono in luce l’infondatezza esprimendo in positivo la differenza della propria esperienza. In questo modo le persone transgender hanno iniziato a creare immagini culturali proprie, a formare un’identità positiva autoorganizzandosi e trovando espressioni culturali pubbliche, ad affrontare la cultura dominante rivendicando il riconoscimento della propria specificità sovvertendo gli stereotipi ricevuti.

Non a caso è proprio a partire dal 1998 che il movimento transgender italiano ha subito una significativa estensione, con un aumento del numero di attivisti impegnati in attività politiche, culturali/ divulgative, di assistenza.

Gli attivisti oggi più rappresentativi del movimento e delle istanze hanno vissuto l’esperienza dei gruppi AMA, vivendo in primis una rivoluzione della prorpia soggettività ed impegnandosi a promuovere poi una rivoluzione culturale. Molti attivisti descrivono la propria motivazione all’impegno come un’ “imperativo categorico” che li spinge ad impegnarsi in questo senso.

I risultati sul piano culturale e politico non si sono fatti attendere.

Negli ultimi anni il tema della variabilità di genere è entrato a pieno titolo fra gli argomenti costantemente proposti a livello mediatico, con persone transgender sempre meno oggetti della discussione e sempre più soggetti attivi e propositivi; si è verificato un vertiginoso aumento nella produzione di materiale sulla variabilità di genere prodotto dalle stesse persone transgender e non più, come in passato, solo da medici, finalizzato in particolare alla sensibilizzazione dell’opinione sulla tematica; il gruppo transgender è divenuto soggetto sempre più conosciuto nel dibattito politico, particolarmente da quei gruppi “naturalmente” vicini, come il movimento gay e lesbico o quello delle donne; le sedi di associazioni di persone che svolgono attività di supporto sono aumentate in modo più che significativo (fino a cinque volte); la visione non patologica della variabilità di genere è oggetto del lavoro di informazione e divulgazione innanzitutto internamente alla comunità di riferimento.

Note

[1] Un gruppo di auto-mutuo-aiuto è un gruppo composto da persone accomunate da una situazione di disagio. Tale disagio viene affrontato ed elaborato in prima persona attraverso il confronto, la condivisione e lo scambio di informazioni, emozioni, esperienze e problemi. Nel gruppo di auto-mutuo-aiuto si ascolta e si è ascoltati, senza pregiudizi, in un clima armonioso in cui si scoprono e si potenziano le proprie risorse interiori. Tale gruppo si autogestisce seguendo un sistema condiviso di obiettivi, regole, valori e mira ad incrementare il benessere psicologico di tutti i membri.

Bibliografia

  • NUSSBAUM M.C., Capacità personale e democrazia sociale, Diabasis, Reggio Emilia, 2003.