Manifesto per la libertà di genere. Prima parte: oppressione e dignità umana.

Nella sua accezione tradizionale, la parola oppressione viene identificata con l’esercizio di un potere tirannico da parte di un gruppo dominante, con una forte connotazione di conquista ricollegabile al dominio colonialistico. A tale accezione si ispirano la maggior parte degli utilizzi del termine nel mondo occidentale (di s.).

I movimenti della “nuova sinistra” sorti negli Stati Uniti a partire dagli anni sessanta hanno operato uno slittamento relativamente al concetto di oppressione, definendo oppressi gruppi sociali quali le donne, i neri, i messicani, i portoricani e gli altri ispanici, gli Indiani d’America, i gay e le lesbiche, gli arabi, asiatici, i vecchi, i proletari, i disabili fisici e mentali. Il gruppo sociale che più recentemente è stato incluso in questa definizione è quello delle persone transgender.

In questa nuova accezione, oppressione designa la condizione di svantaggio e di ingiustizia a cui sono sottoposte certe persone non perchè un potere tirannico le tenga in soggezione, bensì a causa delle di quelle dinamiche interne alla società democratico- liberale, definibili come “pratiche quotidiane”, che nei fatti pongono limitazioni a determinati gruppi sociali (di s.).

L’oppressione che determinati gruppi sociali subiscono in una sosietà democratico- liberale può essere quindi condiserata strutturale, poichè le sue origini sono attribuibili a norme, attributi e simboli mai messi in discussione, ad assunti che sottendono alle regole istituzionali e nelle conseguenze derivanti dal fatto che tali regole siano seguite collettivamente. Citando Frye, l’oppresione designa “una soffocante struttura di forze e di barriere che tende ad immobilizzare e a limitare un gruppo o una categoria di persone” (di s.).

In questo allargato senso strutturale, il termine oppressione è riferibile alle ingiustizie che alcuni gruppi subiscono nelle normali interazioni sociali in conseguenza di assunti, reazioni, stereotipi mediatici e culturali (Young 1996).

Nell’analizzare il concetto di oppressione nell’accezione appena descritta, Young propone un insieme di categorie e distinzioni che chiama le “cinque facce dell’oppressione”: sfruttamento, marginalizzazione, mancanza di potere, imperialismo culturale, violenza. Di seguito si dimostrerà come le persone ed i gruppi transgender contemporanei subiscano oppressione nel senso delle cinque espressioni individuate e formulate da Young.

L’intuizione centrale contenuta nel concetto di sfruttamento è che questa forma di oppressione si attua attraverso un ininterrotto processo di trasferimento degli effetti del lavoro di un dato gruppo sociale in modo tale da avvantaggiarne un altro. Lo sfruttamento è quindi espressione di una relazione strutturale fra due gruppi sociali e le regole sociali che definiscono la natura del lavoro, chi lo svolge per chi, funzionano in modo da creare relazioni di potere e di disuguaglianza (di s.).

Emblematica di questa realtà, dal punto di vista della razza, secondo Young, è la categoria del “lavoro di servizio”, che, come indica la parola, si riferisce al lavoro della servitù. Ovunque vi sia razzismo, vi è l’assunto, più o meno applicato, che i membri del gruppo razziale oppresso dovrebbero essere i servitori dei membri del gruppo privilegiato. Nella maggior parte delle società bianche, di fatto questo significa che molti bianchi hanno servitori domestici dalla pelle scura o gialla e che permane una strutturazione di tipo razziale del servizio domestico privato. Nelle società occidentali permane quindi una forte pressione culturale a riservare i lavori “di servizio” a persone migranti.

Altrettanto emblematico nella dinamica dello sfruttamento, dal punto di vista del genere, è quello che Brown chiama “patriarcato pubblico”, espressione che identifica quelle pressioni che portano sfruttamento di genere riservando alle donne lavori “tipicamente femminili” che comportano sostegno psicologico, accudimento fisico, appianamento delle tensioni o prestazioni sessuali.

Non è stato difficile per le attiviste transgender dimostrare come lo sfruttamento nel riservare loro un’unica fonte possibile di sostentamento identificabile nella prostituzione. L’ associazione culturale transessualità- prostituzione è di fatto presente e radicata in tutte le società occidentali moderne. Le difficoltà e le forti resistenze che il movimento transgender incontra nell’affermare il diritto al lavoro evidenziano la forte pressione culturale ad identificare la prostituzione come unica occupazione possibile. Intraprendere un percorso socialmente interpretato come dal “maschile” verso il “femminile” in una moderna società occidentale, significa dover soddisfare le esigenze sessuali spesso inconfessabili del gruppo dominante in modo clandestino, notturno, non tutelato e non riconosciuto a livello legale.

Young definisce la marginalizzazione come la forma più pericolosa di oppressione: in questo caso intere categorie di persone vengono espulse dal mercato del lavoro o non riescono a rientrarci o anche solo ad entrarci. Young riporta gli esempi dei nordafricani e degli europei dell’est in Europa, degli Indiani in America Latina, dei giovani neri o ispanici negli Stati Uniti, dei vecchi, delle madri sole con i propri figli, dei diversamente abili a livello mentale o fisico. I “marginali” sono pertanto definiti come coloro che il sistema del lavoro non può o non vuole utilizzare.

Il movimento transgender mondiale ha fatto propria la rivendicazione del diritto al lavoro evidenziando come dinamiche interne presenti in tutte le società occidentali moderne ostacolino la ricerca di un impiego al di fuori del mercato del lavoro o il mantenimento di un impiego a coloro che rendono visibile la propria condizione tramite il coming-out.

Young, rielaborando ed aggiornando la distinzione marxista fra classe media e classe operaia, definisce mancanza di potere l’oppressione subita dai lavoratori non professionisti rispetto ai professionisti, rifacendosi ad una contrapposizione fra professioni e mestieri. I non professionisti sono oppressi in virtù di una posizione subalterna in termini di rispetto e prestigio sociale e non hanno potere nella misura in cui non possono dare ordini, ma soltando riceverli. I “senza potere” hanno scarse possibilità per sviluppare ed esercitare le proprie capacità, scarsa o nessuna autonomia lavorativa, scarse possibilità di esercitare facoltà di giudizio nel proprio lavoro. I “senza potere” non suscitano rispetto in situazioni di tipo pubbico o burocratico, mancano dell’autorità, del prestigio e del senso di sè che tendono ad avere i professionisti.

I privilegi del professionista travalicano il luogo di lavoro fino a plasmare l’intero stile di vita, caratterizzabile con il termine “rispettabilità”. Al professionista sono riconosciute autorità, competenza ed influenza; questo fa sì che al professionista sia generalmente riconosciuto un trattamento più rispettoso di quello che generalmente viene riservato al non professionista.

L’aspetto di privilegio di tale rispettabilità riservata ai professionisti si rivela nel modo più crudo nelle dinamiche razziste e sessiste: la donna o l’uomo di colore non sono trattati con deferenza o rispettoso distacco agli estranei, perchè aprioristicamente considerati come lavoratori di mestiere. Nello stesso modo la donna transessuale, spesso visibile in quanto tale, non gode di rispettabilità, perchè considerata aprioristicamente come lavoratrice del sesso.

In anni recenti, da parte dei movimenti di liberazione, in particolare delle donne e dei neri, è stata messa in evidenza un’altra forma di oppressione, che Young definisce imperialismo culturale, il quale “comporta l’universalizzazione dell’esperienza e della cultura di un gruppo dominante, le quali vengono così accreditate come la norma”. E’ possibile definire dominanti quei gruppi che hanno esclusivo o prioritario accesso ai mezzi di interpretazione e di comunicazione di una società e che producono prodotti culturali che esprimono esperienze, valori, finalità e conquiste che rendono la loro esperienza come rapprentativa dell’umanità intera. L’incontro di questi gruppi con altri può tuttavia mettere in discussione la loro pretesa universalità.

I gruppi dominanti difendono la propria posizione riportando gli altri gruppi sotto il metro di valutazione delle proprie norme, riconcettualizzando la differenza come devianza e/o inferiorità e identificando la propria specificità come neutra ed espressione di “normalità”. I gruppi non dominanti sono così identificati come “Altro” (di s.).

Le persone oppresse dall’imperialismo culturale si ritrovano così definite dall’esterno, collocate, situate da una rete di significati dominanti che esse vivono come provenienti da altrove, da coloro con i quali non identificano e che non si identificano con loro (di s.).

In quanto esseri vistosi e devianti, coloro che subiscono l’imperialismo culturale si vedono attribuita un’essenza. “Come tutti sanno che la Terra gira attorno al Sole, così tutti sanno che gli omosessuali preferiscono i rapporti occasionali, che gli indiani sono alcolizzati, che le donne ci sanno fare con i bambini” (di s.) e che le donne transgender cambiano genere per avere più uomini e si prostituiscono per vocazione ed avidità. “I maschi bianchi, invece, nella natura in cui sfuggono ad una caratterizzazione di gruppo, possono essere persone e basta.” (Young, 1996).

Coloro che sono culturalmente dominati sono così vittime di stereotipi che li inchiodano ad una natura che il più delle volte aderisce in qualche modo alla loro corporeità e quindi non può essere facilmente negata. I membri di quei gruppi finiscono così per essere imprigionati nel proprio corpo, corpo che il discorso dominante concettualizza come brutto, sporco, contaminato, impuro, corrotto o malato. Nel caso delle persone transgender tale corporeità consiste in una genitalità differente, così come in una corporeità ed immagine esteticamente “altra” determinata da quei connotati fisici giudicati dalla cultura dominante come “grotteschi”, “ambigui”, “inquietanti” o semplicemente “brutti”.

Le persone transgender vivono su di sè tale riduzione del proprio mondo, scoprendo il proprio status nel comportamento degli altri: dai loro gesti, dal nervosismo che manifestano, dal fatto che evitano di guardarle negli occhi, dal fatto che si tengano a distanza, se non addirittura dal loro esplicitare disprezzo attraverso il linguaggio verbale o non verbale. Gran parte di tale esperienza oppressiva ha luogo nei contesti interattivi più quotidiani, dando corpo all’esperienza dell’essere guardate dagli altri con avversione in ragione della propria appartenenza ad un gruppo “altro”. Simili comportamenti, anzi l’intero incontro con l’altro, spesso riempiono dolorosamente la loro coscienza discorsiva, ricacciandole nella loro identità di gruppo, facendole sentire osservate o, al contrario, invisibili, non prese seriamente, o, peggio, umiliate.

A rendere i comportamenti transfobici improntati all’avversione particolarmente esasperati concorre senza dubbio quella che Young definisce “angoscia circa i confini”: se l’idea di razza, ad esempio, permette ad una persona bianca di sapere di non essere nera o asiatica, l’idea di variabilità di genere, non avendo tratti fisici o genetici certi nella sua manifestazione, non permette ad esempio ad un maschio di trincerarsi dietro un rassicurante confine. Una delle domande che più frequentemente viene posta alle attiviste transgender nell’ambito del loro lavoro di divulgazione è infatti: “Quando e come ti sei accort* di essere trans*?” ovvero “Come posso io essere sicuro di non riscoprirmi trans* un giorno?”. La transfobia è quindi una delle più profonde paure della differenza, appunto perchè il confine fra “trans* e non trans*” è percepito come permeabile: chiunque forse potrebbe riscoprirsi transgender, specialmente io, perciò l’unico modo che ho per difendere la mia identità è di voltare le spalle con disgusto irrazionale se incontro una persona transgender.

I membri dei gruppi sottoposti a imperialismo culturale spesso esibiscono a loro volta avversione e svalutazione nei confronti di membri del proprio gruppo. Così come esistono neri razzisti, donne sessiste, gay omofobi, esistono persone transgender transfobiche. Queste spesso evitano qualsiasi contatto con altre persone transgender, vivono l’iter come un percorso di “riassegnazione” al “sesso giusto”, ricercano l’assoluta indistinguibilità estetica ma anche culturale con le persone del sesso di elezione, negando anche solo l’idea di un’identità differente e spesso giungono all’intervento di “riassegnazione finale” sui genitali per poi vivere una vita che nega uno scomodo “passato”.

Le associazioni transgender rilevano ancora un alto tasso di transfobia nella propria comunità di riferimento, dato che evidenzia la preoccupante interiorizzazione di un senso di disvalore della propria differenza e che pone come prioritaria la promozione di una cultura transgender all’interno del gruppo di riferimento.

Una rilevante differenza con i membri di altri gruppi vittime di imperialismo culturale è che le persone transgender transfobiche hanno la possibilità di entrare, costruendo una nuova vita e cancellando le tracce del proprio passato, a pieno titolo nel gruppo dominante.

Un fattore che merita attenzione è quello della “transfobia interiorizzata”, riferito ad un senso di disvalore di sè del quale le stesse persone transgender sono portatrici, emerso con chiarezza nell’esperienza dei gruppi di auto mutuo aiuto a loro riservati in Italia. L’interiorizzazione della transfobia deriverebbe dallo stigma promosso dalla cultura dominante nei confronti della variabilità di genere ad ogni livello, ed avrebbe significative ripercussioni nell’elaborazione della propria identità, in termini di scarsa autostima. L’agenzia di socializzazione che maggiormente favorirebbe l’interiorizzazione dello stigma sarebbe quella della scuola: numerose e significativamente frequenti sono infatti le testimonianze relative ad un contesto scolastico ostile e vessatorio. Tale senso di disvalore avrebbe concrete conseguenze nell’affermazione di sè e nella promozione dei propri diritti, portando molte persone transgender a ritenere legittima la penalizzazione derivante da comportamenti discriminatori nei loro confronti.

Le persone transgender vengono così definite “transessuali”, termine medicalizzato che una comunità scientifica espressione della logica dominante ha coniato negli anni ’60, vedendosi così definite e categorizzate in una definizione di patologia imposta dall’esterno e senza alcun diritto di replica. Si è già illustrato come il processo che porterà alla depatologicizzazione della variabilità di genere sia ancora in corso nelle moderne società occidentali, dove attualmente permane un’identificazione del fenomeno con la patologia.

Molti gruppi, infine, subiscono l’oppressione della violenza sistematica. I membri di questi gruppi vivono nella consapevolezza di dover temere aggressioni cieche ed ingiustificate contro la loro persona che hanno il solo scopo di danneggiare, umiliare o annientare. I gesti riconducibili a questa forme di violenza non vengono normalmente considerati come casi di ingiustizia sociale, ma come atti riconducibili a singoli individui particolari, perlopiù fanatici, devianti o squilibrati

Quest’interpretazione non dà però conto di quanto il contesto sociale di contorno li renda possibili o addirittura accettabili. Ciò che rende la violenza un fenomeno di ingiustizia sociale, e non semplicemente un’infrazione individuale alla morale ed alla legalità, è il suo carattere sistemico, il suo essere di fatto pratica sociale.

La violenza è sistemica in quanto diretta agli appartenenti ad un gruppo sociale per il solo fatto che vi appartengano. Così come ogni donna ha motivo di temere lo stupro ed ogni nero la discriminazione, ogni persona transgender vive sapendo di essere un bersaglio di possibili aggressioni o molestie.

Il carattere di oppressione della violenza non sta tanto nella vittimizzazione diretta , ma nella quotidiana consapevolezza di tutti i membri di gruppi oppressi di essere esposti al rischio di violenza esclusivamente a causa della propria identità di gruppo. Questo tipo di violenza si può quasi considerare legittima, perchè tacitamente tollerata a livello sociale. Emblematico di questa tacita legittimazione e speculare delle tacite convinzioni implicite nel tessuto sociale, è l’ atteggiamento dei media, ovvero il modo in cui gestiscono notizie riconducibili ad un gruppo oppresso. La violenza, l’omicidio di donne transgender passa quasi sotto assoluto silenzio nelle società occidentali, eccezion fatta per qualche trafiletto di cronaca nera che riporta, senza denunciare si badi, ma solo registrando, una fredda e distaccata (non può esservi cordoglio per l’omicidio di una persona transgender) descrizione degli eventi in cui solitamente si evidenziano dettagli morbosi. E’ così considerato normale che una ragazza transgender venga uccisa a causa della sua differenza, ancor più se straniera, ancor più se proveniente da un paese latino, a maggior ragione se dedita alla prostituzione: in quella gerarchia sociale che il cordoglio o la sua negazione mettono drammaticamente in evidenza, essa è destinata ad occupare l’ultimo posto.

Bibliografia

  • YOUNG I.M., Le politiche della differenza, Feltrinelli, Milano, 1996.

Manifesto per la libertà di genere: seconda parte