Il linguaggio inclusivo e l’importanza della formazione presso le aziende

Oggi pomeriggio terrò una formazione sul linguaggio inclusivo (per informazioni sui miei corsi scrivete pure all’indirizzo info@monicaromano.it) rivolta ai corsisti del Master in Risorse Umane di Bianco Lavoro Academy.

Preparando le slide per la mia relazione, ho pensato di scrivere un articolo che offra una definizione di linguaggio inclusivo e che risponda ad alcune domande che ricevo molto frequentemente:

 

  • Che cos’è il linguaggio inclusivo?
  • Perché usare il linguaggio inclusivo?
  • Il linguaggio inclusivo viene insegnato nelle aziende in Italia?
  • Il linguaggio può veicolare i nostri pregiudizi e stereotipi?
  • Ci sono degli esempi di linguaggio inclusivo?

Che cos’è linguaggio inclusivo? Una definizione

 

Il linguaggio è la facoltà dell’essere umano di entrare in relazione con altre persone attraverso un sistema di simboli, che altro non sono che convenzioni, cioè accordi che abbiamo trovato nell’abbinare i diversi significati ai significanti. Appartenendo a uno stesso sistema socio-culturale noi arriviamo a capirci perché il linguaggio è primariamente uno strumento di comunicazione e interazione.

Il linguaggio è una facoltà che apprendiamo fin dalla primissima infanzia. Il linguaggio non viene insegnato, ma appreso in modo organico nell’interazione con l’ambiente, il contesto, le persone con cui cresciamo attraverso il gioco, che in quegli anni è lo strumento di scoperta e confronto con chi ci sta intorno. A scuola ci vengono poi insegnate le regole grammaticali e sintattiche e l’arricchimento del vocabolario. Così si favorisce lo sviluppo sociolinguistico e via via il nostro linguaggio diviene sempre più ricco e sofisticato fino a renderci autonomi in età adulta.

Il linguaggio svolge una funzione su quattro piani essenziali:

  • Cognitivo – Ci consente di descrivere eventi ed esperienze senza che vi sia stata esperienza diretta, ma anche di scambiare informazioni e contenuti. Grazie al linguaggio noi mettiamo a fattor comune dei contenuti.
  • Comunicativo – Permette la trasmissione di messaggi e l’interazione sociale che, a seconda del linguaggio utilizzato, può essere di vario tipo, ad esempio formale o informale a seconda dei codici linguistici che decidiamo di utilizzare.
  • Imprinting Il linguaggio dà forma ai nostri pensieri e ai nostri processi cognitivi.
  • ContestoIl linguaggio non si limita a descrivere la realtà, la costruisce e dà forma al pensiero e ai processi cognitivi.

Il linguaggio inclusivo è quindi un linguaggio che non discrimina, un linguaggio attento alle diversità, un linguaggio che fa sentire le persone rispettate. Il linguaggio inclusivo mette al centro le persone, le individualità e non le categorie di cui le persone fanno parte. In questo senso, “Il linguaggio è un atto di identità”, citando la sociolinguista Vera Gheno, perché le parole che usiamo e scegliamo dicono chi siamo. Il linguaggio, insomma, ci definisce.

Perché usare il linguaggio inclusivo?

L’inclusione delle diversità produce valore per le persone considerate diverse (maggior senso di appartenenza e quindi di motivazione e partecipazione e perciò di produttività), ma esistono anche indicatori dell’impatto di business ed economico che si produce all’interno di un contesto economico e organizzativo.

La lingua utilizzata fino a poco tempo fa nelle aziende era costruita su una norma che per motivi storico-culturali era cucita su un’impronta maschile, caucasica, eterosessuale, cristiana e abile. Quella lingua non aderisce a una nuova realtà fatta di moltissime differenze e sfumature.

Occorre accompagnare le organizzazioni per far sì che il linguaggio che si utilizza lavori a favore di un percorso inclusivo. Un linguaggio che deve andare oltre le campagne di comunicazione e arrivare al quotidiano: il linguaggio che utilizziamo durante una riunione, il linguaggio del corpo di quando ci si incontra nei corridoi di un’organizzazione.

Il linguaggio inclusivo nelle aziende e in Italia

 

Normalmente l’Italia è un paese che tendiamo a considerare arretrato dal punto di vista del lavoro per l’inclusione delle differenze. In netta controtendenza con questo immaginario condiviso, rileva segnalare che le aziende italiane stanno invece rispondendo molto bene e che – a oggi – abbiamo una richiesta elevatissima di corsi e formazioni dedicate al linguaggio inclusivo. Scuole, università e terzo settore fanno un lavoro importante in questo senso, ma è innegabile che il mondo delle corporate e delle aziende stia dando in questi anni una spinta decisiva a un vero e proprio cambiamento culturale.

Così siamo approdati al Diversity and Inclusion Speaking, con veri e propri corsi di linguaggio inclusivo che si ispirano ai corsi di lingua straniera, con tanto di test di ingresso in cui si viene valutati rispetto al proprio livello di competenza e consapevolezza.

A seconda del livello si costruisce un percorso che si articola in diversi incontri e una valutazione finale per valutare impatto e cambiamento portati dai corsi.

Il linguaggio come veicolo di pregiudizi inconsci (bias cognitivi)

Il linguaggio fa parte della nostra vita praticamente da sempre, e quindi siamo portati a dare molte cose per scontate. Tolte le situazioni formali, noi non riflettiamo sul linguaggio che utilizziamo (del resto il linguaggio è anche un automatismo), soprattutto in situazioni in cui siamo sotto stress e parliamo velocemente. Ripeschiamo nel nostro repertorio linguistico le espressioni che utilizziamo da sempre. Non ci riferiamo in questa sede al linguaggio di odio utilizzato appositamente per offendere e far del male, ma a quello che veicola pregiudizi in modo inconsapevole.

Esempi sul linguaggio inclusivo di genere

(a partire da espressioni di uso comune che sarebbe bene evitare!)

 

 

  • Esempio 1

Utilizzare “signora” al posto di “dottoressa” nel rivolgersi a una collaboratrice sul posto di lavoro

Con questa scelta di parole, si mortifica il valore professionale di una collega o collaboratrice.

  • Esempio 2

“Bella e brava!”

Spesso, chi utilizza espressioni come questa pensa di rivolgere un complimento e di gratificare chi lo riceve.

Purtroppo in moltissimi casi accade l’esatto contrario, perché – come molte partecipanti ai corsi di diversity & inclusion speaking hanno evidenziato partendo dalle loro personali esperienze – complimenti di questo tipo possono provocare disagio e imbarazzo.

Esempi sul linguaggio inclusivo rivolto alle persone LGBT*

(a partire da espressioni e pratiche di uso comune che sarebbe bene evitare!)

 

  • Esempio 1

Dare del gay a un eterosessuale

«Ma non è una cosa grave, lui non è gay e quindi non è un’offesa!»

In realtà, questa pratica fra uomini eterosessuali serve a prendere le distanze dall’omosessualità.

Se accade fra omosessuali ovviamente il senso è completamente diverso e richiama appartenenza.

  • Esempio 2

Ridicolizzare e schernire l’uso dello schwa e dell’asterisco

Lo schwa – trascritto con ə – e l’asterisco sono simboli molto importanti per la comunità LGBT+, in particolare per la comunità transgender e non binaria, perché veicolano un linguaggio che non esclude chi si discosta dal paradigma uomo/donna. Fare ironia sull’utilizzo di questi simboli significa mortificare le istanze di inclusione di questa comunità, che riguardano anche il linguaggio.

E, a proposito…

Come si legge l’asterisco? Perché si usa l’asterisco?

L’asterisco non si legge, si scrive e basta. Si usa affinché anche i destinatari del nostro messaggio appartenenti alla comunità transgender e non binaria si sentano inclusi fra le persone a cui ci rivolgiamo.

Come si legge lo schwa? Perché si usa lo schwa?

Se collocato come desinenza di una parola, anche lo schwa  non si legge, si scrive e basta.

Per pronunciare la parola “schwa”:  la “c” non è dura come in “scuola”, ma morbida come in “piscina”, e anche il gioco con la “s” e l'”h”, che è muta, aiuta a riprodurre il suono sibilante “shhh”. La parola schwa si pronuncia “shuàa”, con una “a” allungata sul finale.

 

La mia partecipazione al talk per il linguaggio inclusivo di Vodafone

Come sapete, fra le mie attività c’è anche quella di formatrice aziendale sul diversity management, lavoro che è andato a consolidarsi e a intensificarsi dopo il conseguimento del Master in Diversity Management e Gender Equality della Fondazione Giacomo Brodolini.
Il 17 maggioGiornata per il contrasto dell’omofobia, transfobia, lesbofobia e bifobia – sono stata lieta di partecipare a un importantissimo talk per il del network interno di Vodafone.
Negli anni Vodafone si è dotata di un Inclusion commitment per l’uguaglianza che ha già visto la partecipazione di rappresentanti d’eccellenza come Franco Grillini.
Come dico molto spesso, le aziende del terziario avanzato sono ormai una potente locomotiva per il cambiamento culturale che auspichiamo e per cui da anni ci battiamo, e poter portare all’interno di questi contesti organizzativi lo sguardo e la cultura delle minoranze sessuali e di genere è una straordinaria opportunità.

Milano ha approvato il primo “Registro di Genere” in Italia per le persone transgender

https://www.youtube.com/watch?v=bYKjc7vOJ1g

 

Sono felice e orgogliosa di poter annunciare una vittoria storica: il Consiglio Comunale ha approvato la mia mozione per l’istituzione di un Registro per il riconoscimento del genere di elezione per le persone transgender, gender non-conforming e non binarie.

Il Registro consentirà ai cittadini transgender milanesi di avere i documenti di riconoscimento di competenza del Comune (abbonamento ATM, tessere delle biblioteche, badge e documenti di riconoscimento aziendali per i dipendenti del Comune di Milano e delle aziende partecipate) con il nome da loro scelto e non più il nome anagrafico.

La mozione approvata prevede inoltre misure per rendere effettivo il diritto di voto delle persone transgender che – a causa del problema dei seggi elettorali suddivisi in base al sesso – spesso disertano le urne per evitare situazioni di imbarazzo. D’ora in poi, per ottenere i documenti con il nome scelto, per i cittadini transgender sarà quindi sufficiente fare una dichiarazione davanti a un ufficiale di stato civile.

In attesa di una nuova legge nazionale che riconosca il diritto all’identità di genere e all’autodeterminazione delle persone transgender – la legge attualmente in vigore è ormai di 40 anni fa e del tutto inadeguata – l’approvazione di questo registro è un traguardo molto importante. Oggi le persone transgender devono affrontare percorsi che possono durare anche anni, frustranti quanto costose perizie psichiatriche e mediche, passaggi da avvocati e tribunali che allungano i tempi e costano migliaia di euro – prima di vedere riconosciuto un diritto che dovrebbe essere dovuto e soltanto validato dalle istituzioni.

Tutto questo avviene in contrasto con gli orientamenti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che – ormai quattro anni fa – ha stabilito che essere transgender non è una malattia psichiatrica.

Come il Registro delle Unioni Civili approvato a Milano nel 2012 anticipò il riconoscimento delle coppie omosessuali, oggi il Registro di Genere sarà avanguardia per il riconoscimento della cittadinanza delle persone transgender.

 

Lavoratori, diseduchiamoci!

Sto tornando dalla manifestazione indetta per il 1 maggio a Milano per la Festa dei Lavoratori, e sono un po’ triste.
Ho visto una scarsa partecipazione, forse anche più ridotta rispetto a prima della pandemia.
Ho sentito dal palco parole e toni troppo educati rispetto a quello che dovrebbe essere il sentimento delle lavoratrici e dei lavoratori dopo due anni di cui soprattutto chi vive di lavoro ha fatto le spese (tanto per cambiare).
Che stanchezza tutta questa educazione e tutto questo contegno calati come una nebbia soporifera sui temi del lavoro.
Dov’è finita la rivendicazione a Milano?
Ho poi sentito la solita vuota retorica sulle donne e sui sanitari, a cui dovremmo esser tutti grati, e il solito “bla bla bla” (grazie a Greta Thunberg per averci regalato quest’espressione così vera e immediata).
Come ci siamo dettə tante volte, al posto della gratitudine, forse un aumento delle paghe e una diminuzione della precarietà e del gender gap sarebbero molto più graditi a coloro che si sono sentiti chiamare “eroi” durante la pandemia, tenendo botta. E invece.
E poi tutto questo utilizzo di termini inglesi che ascolto ai vari eventi che riguardano il tema del lavoro che sto cercando di seguire – francamente – un po’ mi urta.
Non faccio che pensare: “e quindi? E allora?”.
Credo – e oggi però voglio anche dirlo – che il dibattito sul lavoro, per ripartire davvero, abbia bisogno di tre ingredienti che da troppo tempo mancano: pragmatismo, sostanza e verità.

LGBT History Month – Aprile, mese della storia LGBT+

Sono intervenuta in Consiglio comunale perché oggi, 5 aprile, ricorre il cinquantenario di una manifestazione molto importante per il movimento LGBT+.
Il 5 aprile del 1972 ebbe luogo la prima manifestazione gay e lesbica italiana.
40 persone – fra cui Mario Mieli, figura di rilievo nella nostra storia e fra i massimi teorici del movimento omosessuale italiano – si presentarono a un Congresso Internazionale di Sessuologia di ispirazione cattolica che considerava l’omosessualità una malattia mentale e che si proponeva di curarla.
Associazioni e gruppi – fra cui il Gay Liberation Front – arrivarono a Sanremo da tutta Europa per protestare contro gli psichiatri e la medicalizzazione, gridando lo slogan:
«, ».
L’intervento si conclude con la citazione di un passaggio del libro ANTOLOGAIA, di Porpora Marcasciano.
Buon Pride History Month a tuttə!