Presentazione della rivista “Leggendaria” (n° 132)

Sabato 2 febbraio alle ore 18:30 presso la Libreria Antigone di Milano presentazione del numero 132 della rivista Leggendaria.Con Giuliana Misserville, curatrice del numero 132 di Leggendaria, dialogheranno Barbara Mapelli e Monica J. Romano.

Barbara Mapelli da tempo si occupa di tematiche legate alle culture e pratiche di genere, in particolare legate al’ambito educativo e sociale. Da alcuni anni si è avvicinata alle realtà lgbtqia poichè ritiene che le riflessioni sulle identità sessuali (anche per rifiutarne la definizione) siano centrali per una trasformazione positiva che coinvolga tutte e tutti. Monica J. Romano, scrittrice e attivista, ha recentemente pubblicato “Gender (R)Evolution“.


Trans/Scritture
Il Tema di questo numero, curato da Giuliana Misserville, è dedicato alle “Trans/Scritture”: come figure, vite concrete e narrate stanno cambiando l’immaginario del nostro presente attraverso la letteratura, il cinema, la Tv e il teatro. Questioni da mettere in agenda non solo per comprendere fenomeni che tuttora in Italia sono generalmente considerati marginali – oltre che fortemente osteggiati – ma anche per riposizionarsi sul fronte delle molte identità in gioco. Al Tema hanno contribuito Lidia Curti, Liana Borghi, Federica Fabbiani, Luisa Ricaldone, Gabriella Musetti, Paola Bono, Serena Guarracino, Monica Luongo e Cristina Giudice. Con un’intervista di Elisa Coco a Porpora Marcasciano.
Leggendaria celebra poi il centesimo anniversario della morte di Rosa Luxemburg e dedica ampio spazio alla figura della pittrice Artemisia Gentileschi. Alcune grandi scrittici (Antonella Anedda, Michela Murgia, Muriel Spark, Ali Smith) vengono messe sotto i riflettori. E poi ci sono le Strenne per gli Under-15, le Letture e le imperdibili Rubriche.
Ma questo è un numero doppio, anzi ben di più, perché alla rivista è allegato un Supplemento di 80 pagine dedicato alla figura e alla scomparsa di Bia Sarasini.






Il femminismo TERF e le “haters” sul web: quando la radicalità diventa violenza

Queste sono le parole con le quali quella che suppongo essere – posso solo supporlo perché il profilo che ha postato il commento è molto probabilmente falso – una (sedicente) femminista mi ha appellato ieri in una discussione pubblica sulla bacheca di un amico:


Assieme a diversi messaggi anonimi, più o meno dello stesso contenuto ma di ben più forte tenore che ho ricevuto nel corso del 2018 e a un hackeraggio del mio sito web (impossibile identificare i responsabili, mi ha detto la mia webmistress Laura Nicolini, che ringrazio… ma in più di dieci anni che sono sul web è la prima volta che mi succede una cosa del genere, peraltro poco dopo la pubblicazione di un articolo sul femminismo trans-escludente #TERF… tutte casualità? Forse sì, forse no), queste parole hanno delineato – a detta di una cara amica che mi aiuta sempre a riflettere in modo più distaccato e meno emozionale – un attacco più o meno sistematico e organizzato, ma certo reiterato, a opera di #haters.

Ora, perché decido di rendere pubblico tutto questo?
Perché con le parole si può fare molto male alle persone, e gli (e le) haters vanno fermati.

Quando dico “fare del male” non penso a me, che da vent’anni ci metto nome, cognome e faccia nella battaglia per i diritti delle persone #transgender e che manco le frotte di bulli – grandi, grossi e cattivi! – da adolescente m’hanno mai abbattuto, figuriamoci quattro #TERF che nemmeno hanno il coraggio di firmarsi e che una risata, un bel giorno, seppellirà… 😉

Mi riferisco a tutte quelle ragazze o donne transgender legittimamente più fragili e meno ciniche/scafandrate della sottoscritta, che nel #femminismopotrebbero – dovrebbero poter! – pensare di trovare una casa.

Credo sia ora di denunciare pubblicamente e a voce alta certe “espressioni” che hanno il solo scopo di umiliare, ferire, intimorire, silenziare, escludere.

Come sempre, una doverosa puntualizzazione: quello a cui io faccio riferimento in questo post non è il femminismo. Queste sono degenerazioni del femminismo veicolate da singole persone, cosa ben diversa.
Certo sarebbe auspicabile, a mio modesto avviso, che il femminismo “ufficiale” prendesse le distanze da queste #haters che minano la possibilità di una dialogo genuino fra soggettività ed esperienze.

Una della battaglie per le quali senz’altro mi spenderò nei prossimi anni, sarà quella dell’inclusione delle donne transgender nel femminismo, come a dire: quando pensate di demolirci offendendoci e denigrandoci, sappiate che ci rendete soltanto più forti e determinate.

“I libri delle donne” di Vera Navarrìa con postfazione a cura di Monica J. Romano

<<Ogni donna che oggi viene pubblicata senza stupore, vince un premio letterario, svetta sulla classifica dei best seller, è recensita con attenzione da un critico mentre cinquant’anni fa sarebbe stata ignorata, ha un debito di riconoscenza verso le femministe e loro case editrici di quegli anni>>

Vera Navarrìa, ricostruendo il fervore culturale nato dalle istanze femministe e il ruolo svolto dalle case editrici che «vivevano per un fine ideale, dare voce alle donne, alla loro differenza, alla loro creatività», fa un quadro dell’editoria femminista europea, si sofferma su quella italiana e svela di avere «appreso con stupore che per alcuni anni il mondo ha conosciuto un circuito editoriale diverso […]che nelle sue spinte più utopiche ambiva a fare da sé, a fare a meno del compromesso con l’editoria “tradizionale”, capitalista, “degli uomini”, […] colpevole di non pubblicare abbastanza autrici e di essere il primo anello di trasmissione di una cultura pensata esclusivamente dagli uomini, dalla quale le donne si sentivano non rappresentate ed escluse».

Di queste case editrici Navarrìa racconta genesi, modo di lavorare, copertine e storie personali di donne certe di avere qualcosa da dire e di poter rivendicare un ruolo rilevante. Tanto da far asserire a Monica J. Romano, nella postfazione, che «ancora oggi, sono le parole di altre donne a mettermi in salvo».

Donne che odiano le trans

I miei auguri quest’anno vanno a tutte le donne che odiano le trans.
Un augurio alle femministe che vorrebbero escludere le donne trans dagli spazi delle donne.
Un augurio a quelle che ci deridono, tacciandoci di superficialità, per il selfie in più (hanno mai pensato queste donne che forse, dietro al selfie, c’è un’altra donna che è riuscita ad amare la sua immagine dopo anni di dolore, sangue e sacrifici?) e a quelle che ci condannano perchè ameremmo, da stereotipo, essere truccate e iperfemminili (e allora?).
Un augurio a quelle che detestano quella nostra femminilità che si traduce, ogni giorno, in favolosità. Sì, favolosità! La favolosità di una battaglia portata avanti 365 giorni all’anno per poter semplicemente essere noi stesse, contro barriere e pregiudizi.
Un grande augurio a quelle che che insultano e disprezzano i nostri corpi e le nostre vite semplicemente perché ci temono. Ricordate, ragazze: la paura, come l’Amore, ha un odore, e noi lo sentiamo.
Un augurio a quelle che scrivono insulti anonimi e pieni di disprezzo senza avere il coraggio di rivelarsi, che hackerano siti, che mettono in giro menzogne e falsità: sappiate che, lungi dall’intimidire, questi comportamenti rafforzano la determininazione nel continuare a battagliare (e a denunciare, se necessario).

Qual è il mio augurio a queste donne per l’anno che verrà? Di riuscire a farsi una vita ed essere felici e favolose.
E, più di tutto, di capire che il nemico non sono le donne trans. Ragazze, il nemico si chiama patriarcato e noi ne siamo le prime nemiche e traditrici. Che il nuovo anno possa regalarvi questa consapevolezza e invogliarvi a cercare un dialogo con chi, pur avendo una storia diversa dalla vostra, condivide la vostra stessa oppressione.

 

 

 

Alcuni estratti dal mio ultimo libro Gender R- Evolution per Ugo Mursia editore.

 

 

Non mi si fraintenda: ho cambiato felicemente la mia fisicità e rivendico ogni singolo cambiamento che ho, in piena coscienza, operato sul mio corpo.
Modificare il mio corpo ha migliorato notevolmente la qualità della mia vita intima prima che sociale, del mio percepirmi e relazionarmi a me, andando a sanare un disagio che non mi avrebbe permesso di vivere.
Chi sostiene che i nostri percorsi di autodeterminazione siano il risultato di un inconscio desiderio di omologazione sociale o di chissà quale indecifrabile
influenza, oltre a delegittimare la nostra autodeterminazione, di fatto ci sovradetermina, facendo una vera e propria violenza sulle nostre vite. Questa idea di noi, molto pericolosa per la nostra libertà e per le conquiste fatte fino ad oggi, è trasversale (del resto, la storia contemporanea ci insegna che gli estremismi e le ideologie di parti anche avverse,  finiscono con l’essere coincidenti) poiché rinvenibile sia in un certo attivismo cattolico estremista – penso alle Sentinelle in Piedi e al movimento Pro Vita – sia in un certo femminismo accademico, radicale e fortunatamente minoritario,
definito TERF (Trans Exclusionary Exclusionary Radical Feminism).

[…]

Vale la pena di ribadire, e con forza, che chi fra noi ha deciso di cambiare il corpo, ha davvero voluto quei cambiamenti, eccome se li abbiamo voluti! In
molti casi desiderati disperatamente e all’inverosimile per tutta una vita. Per questo abbiamo rivendicato e chiesto a gran voce il diritto alla piena autodeterminazione dei nostri corpi, portando a casa le nostre vittorie
nel corso dei decenni, ultime delle quali due storiche sentenze della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale.
Ma, e questo è un aspetto importantissimo, ognuno di noi si è preso la libertà di fare a suo modo e di decidere del suo corpo come più gli aggrada: ogni essere umano dovrebbe poter decidere del suo corpo in piena autonomia, è un diritto universale e deve valere anche per le persone transessuali, transgender e di genere non conforme, con buona pace dei tanti uomini
di scienza, fede e di legge che vorrebbero decidere dei e sui nostri corpi. Del resto, quello della volontà di controllo dei corpi e della lotta per l’autodeterminazione sono temi trasversali fra soggettività, esperienze e battaglie, basti pensare alle donne e al diritto all’interruzione di gravidanza o al tema dell’eutanasia e del fine vita: tanti sono i ponti da costruire o, quantomeno, rafforzare, se vogliamo che le
cose cambino davvero.”

[…]

Nel corso della mia vita ho sentito molte persone transessuali e transgender dire: «Se solo potessi, rinascerei nel corpo giusto».
Comprendo queste sorelle e fratelli che – sia chiaro – hanno tutto il mio affetto e rispetto.
Tuttavia io, nell’andare avanti, maturo sempre più la consapevolezza che, se anche avessi quella possibilità, non cambierei un solo giorno della mia storia e non rinuncerei a un momento di quelli che ho vissuto, per quanto possano essere stati duri e, a volte, al limite della sopportazione.
Sceglierei nuovamente la vita che ho vissuto fino ad oggi.
Qualcuno penserà che sono una masochista, e lo posso comprendere. Del resto, soprattutto a causa della narrazione mainstream delle nostre vite fatta nei salotti televisivi negli ultimi anni – dove la realtà viene reinterpretata e semplificata a colpi di «prima e dopo», suggestioni di collodiana memoria («Ora sono una donna vera!»), uso e abuso del verbo «diventare» e l’immancabile spruzzatina di pietismo cristiano ad accompagnare il caso umano del giorno – molti pensano al nostro cammino come a una sorta di via crucis senza luce, un’esperienza quasi mistica e vagamente espiatoria, ed è buffo come i richiami al sacro spesso si sprechino nelle narrazioni che altri fanno di noi, in tempi di caccia alle streghe e agli ideologi del gender.

Oggi considero la condizione transgender come un dono, e non posso che ringraziare le mie compagne di viaggio che mi hanno portato a questa consapevolezza, spingendomi a rievocare quegli anni Novanta in cui per me il viaggio chiamato transizione cominciava.
Un viaggio che ha riguardato il mio corpo solo in minima parte, perché la parte più importante è quella avvenuta nella testa, nel cuore e attorno a me.
Avere una vita e un punto di vista divergente mi ha portato a vedere e vivere esperienze davvero speciali e alla portata di pochi, sperimentando l’ebbrezza e la gioia di vedere oltre, essendone felice.
Molti di noi, nell’universo della non conformità, hanno visto nel dualismo dei generi «uomo e donna» una convenzione sociale da superare e rivendicato l’esistenza di altre possibilità, vissuti, espressioni, corpi. Il nostro vissuto ha connotato il nostro essere e non può essere buttato via, non vogliamo liberarci di un’esperienza che ci rende fieri e orgogliosi.
Oggi posso dire che mai rinuncerei al mio corpo –un corpo autodeterminato e in fuga dalla rigidità della Norma che più volte ho citato in questo mio memoir – per quanto trovare il mio equilibrio possa essere
stato faticoso e abbia richiesto anni e sangue.
[…]
Il racconto della bellezza dei nostri cammini, della nostra felicità e dell’orgoglio nell’essere ciò che siamo – e non di ciò che dovremmo essere e a cui dovremmo tendere – fatica a trovare spazio nell’immaginario
collettivo.
Iris Marion Young definì «imperialismo culturale» quella forma di oppressione sulla quale già i movimenti delle donne e dei neri hanno posto l’attenzione, che «comporta l’universalizzazione dell’esperienza e della cultura di un gruppo dominante, le quali vengono così accreditate come la norma». I gruppi minoritari sono così vittime di stereotipi che li inchiodano
al corpo e a caratteristiche fisiche e i loro componenti finiscono così per essere ingabbiati nel proprio corpo, corpo che il discorso dominante concettualizza negativamente. Nel caso delle persone transgender tale corporeità consiste, ad esempio, in una genitalità differente, così come anche in una corporeità e immagine esteticamente «altra» determinata da quei connotati fisici che cultura dominante definisce «grotteschi», «ambigui», «inquietanti» o semplicemente «brutti». Ecco spiegato perché occorre
coraggio per arrivare a rivendicare pubblicamente e al di fuori delle oasi associative e di movimento che «Trans Is Beautiful!», come in anni recenti ha fatto l’attrice e attivista Laverne Cox.
Liberare, nutrire ed esprimere l’orgoglio e la fierezza per i nostri corpi liberati e per i nostri vissuti differenti, è stata, è – e sarà! – un’azione culturale e politica potente e sovversiva della Norma, e richiederà determinazione, coraggio e la volontà di essere comunità.
Giusto insomma è stato ed è rivendicare l’uguaglianza, ma non dimentichiamo di difendere la nostra differenza: i nostri sono corpi di cui rivendichiamo la diversità e il loro possibile mutamento può e deve continuare ad essere un adeguamento al nostro personale e intimo sentire, non ad aspettative esterne a noi.

“La piccola principe” di Danna: quando il femminismo dogmatico vorrebbe delegittimare il diritto di parola per le persone trans

Il libro La piccola principe. Lettera aperta alle giovanissime su pubertà e transizione (VandA ePublishing, Milano 2018) di Daniela Danna, ricercatrice in Sociologia generale presso l’Università degli studi di Milano, analizza il fenomeno dell’aumento significativo del numero di persone che – in Paesi come Svezia, Finlandia, Regno Unito, Nuova Zelanda e Canada – accedono a percorsi di transizione di genere in direzione FtM (Female to Male) durante l’adolescenza. 

La premessa indispensabile a ogni considerazione sul testo di Danna è che nessuno – tantomeno i rappresentanti delle associazioni transgenere e gli attivisti T italiani – intende negare il fenomeno sociale a cui Danna fa riferimento: l’aumento di richieste di accesso ai percorsi di transizione e autodeterminazione FtM da parte di adolescenti e famiglie esiste, è documentato e inizia a essere una realtà anche in Italia.

Cosa, questa, che sanno bene tanto i professionisti (psichiatri, psicologi, endocrinologi, avvocati, giudici) che lavorano a stretto contatto con la realtà transgenere, quanto gli operatori e gli attivisti che da anni lavorano nelle associazioni. Tenendo conto del fatto che in gioco c’è la salute di persone adolescenti, il fenomeno merita certamente attenzione, prudenza, studio e grande cautela.

Il dibattito e il confronto su un tema così delicato necessitano di competenze trasversali (mediche, giuridiche, sociali, culturali, politiche), di una visione non dogmatica, di esperienza diretta e documentata con il fenomeno e con le persone a cui ci riferiamo e di onestà intellettuale. Elementi, questi, che nel saggio di Daniela Danna mancano

L’analisi della sociologa milanese – pur ricca di importanti considerazioni sulle conseguenze della misoginia che tutti, nessuno escluso, abbiamo introiettato – risulta infatti parziale e strumentale. Troppo spesso, inoltre, impone verticalmente, quasi muscolarmente, visioni dogmatiche («Non esistono bambini e adolescenti trans. Esistono bambini e adolescenti effemminati e bambine e adolescenti mascoline» – «Il concetto di ‘cis’ non ha senso»), stereotipate («Invece ci sono donne trans ipercurate, depilate al laser, manierate e seduttive, quindi molto più ‘cis’ di noi lesbiche anche se sono trans!») e oscurantiste («Possiamo solo rappezzare mostri come Frankenstein da pezzi di da pezzi di cadaveri: gli esseri viventi non nascono in laboratorio»).

Dalla lettura di questo saggio deriva l’impressione che i percorsi di transizione degli adolescenti vengano usati come grimaldello per scardinare l‘impianto teorico legittimante la stessa esistenza delle persone T sul piano giuridico, scientifico, sociale: a essere messa in discussione è, infatti, l’identità di genere attraverso la selezione capziosa di dati e ricerche.

Danna riporta in auge l’errata identificazione del fenomeno della variabilità di genere con quello dell’omosessualità, riconoscendo nella misoginia interiorizzata la causa dei percorsi di transizione e autodeterminazione FtM. Ritorna poi – ignorando decenni di studi e letteratura scientifica che avvalorano la tesi che la variabilità di genere non rientra nel novero delle patologie mentali ma, semmai, delle variazioni naturali della concezione comune e binaria dei generi – sulla “questione delle cause”, mettendo all’angolo l’autodeterminazione delle persone T. 

Mette, infine, in dubbio la stessa presa di parola delle persone T e la possibilità per le persone T di definirsi come gruppo sociale che nomina la sua stessa oppressione, cancellando decenni di movimento, di comunità e di subultura transgenere italiana e internazionale. «Questa gran confusione – si legge nel saggio – suggerisce sia meglio buttar via la parolina ‘cis’, e cestinare anche la credenza che chi è cis goda di un privilegio nei confronti di chi è ‘trans’».

Non occorre essere sociologi per sapere che qualsiasi gruppo sociale, qualsiasi minoranza ha avuto e ha bisogno di parole per definire la propria differenza rispetto alla maggioranza: la parola cisgender potrebbestare a transgender come, ad esempio, la parola omosessuale sta a eterosessuale. E, se la parola cisgender non piace a qualcuno, ce ne sono tante altre. Negli anni ’90 del secolo scorso e nel primo decennio del 2000, nel gergo della comunità T, utilizzavamo espressioni (spesso con il sorriso sulle labbra) come “donna genetica” o “uomo genetico” per definire chi non era transgenere, o “ragazze XY” o “donne XY” per definire le donne transgenere.

Il linguaggio cambia con i decenni e le generazioni. A non cambiare è il bisogno della comunità T (e di qualsiasi minoranza) di definire se stessa e di significare il mondo con il suo sguardo. Ora è proprio questo nostro bisogno di parlare di noi e per noi che nel saggio di Daniela Danna viene messo in discussione e delegittimato.

Il problema sembra non essere la parola cisgender, ma l’idea che le persone transgenere prendano la parola come gruppo sociale. Cercare di impedire e di frenare l’articolazione di nuovi linguaggi, che nascono dal bisogno di un gruppo di definire la sua oppressione nel sistema sociale, significa promuovere l’idea che il linguaggio delle minoranze e delle subculture vada, in qualche modo, riconosciuto e validato da autorità esterne, controllato, se non censurato

Danna fa, insomma, ciò che il patriarcato fa da sempre con la presa di parola delle donne, prendendo pretestuosamente un tema delicatissimo che per essere affrontato richiederebbe, più di tutto, l’assenza di posizionamenti ideologici