Ancora su Rete4 l'altra sera, ospite di Controcorrente e di @veronicagentili - che ringrazio per l'invito - abbiamo parlato di
omotransfobia, diritti civili e legge Zan.
Il termine “transgender” nasce come termine ombrello dentro cui si possono identificare tutte le persone che non si sentono rappresentate dalllo stereotipo di genere normalmente identificato come “maschile” e “femminile”.
Ancora su Rete4 l'altra sera, ospite di Controcorrente e di @veronicagentili - che ringrazio per l'invito - abbiamo parlato di
omotransfobia, diritti civili e legge Zan.
Il quadro italiano delle discriminazioni nel lavoro delle persone LGBT non è semplice da definire, prima di tutto perché mancano i numeri: non conosciamo il numero di persone discriminate e, quando una discriminazione avviene, è molto difficile fornirne la prova. Quando parliamo di discriminazioni – in concreto – ci riferiamo al blocco della carriera, al mobbing orizzontale (quello messo in atto dai colleghi) e a quello verticale (quello messo in atto dai colleghi superiori gerarchicamente o dallo stesso datore di lavoro), alle molestie sessuali, all’esito negativo del periodo di prova, al mancato rinnovo del contratto a tempo determinato, fino ad arrivare al licenziamento.
Ricordo che il licenziamento discriminatorio resta vietato nel nostro ordinamento, ma che l’onere della prova è a carico del lavoratore. Il licenziamento dichiarato discriminatorio in giudizio è nullo e comporta il diritto alla reintegra, il pagamento di tutte le retribuzioni perdute e la regolarizzazione previdenziale (e questo indipendentemente dalla dimensione aziendale). In Italia esiste il decreto legislativo 216/2003 che vieta la discriminazione basata sull’orientamento sessuale facendo esplicito riferimento ad essa.
Le discriminazioni si differenziano per intensità a seconda della lettera dell’acronimo LGBT che vanno a colpire.
Ad esempio, spesso sentiamo dire che le lesbiche subiscono una doppia discriminazione, ma io direi che è anche tripla: sono infatti discriminate in quanto lesbiche, in quanto donne e, se lo sono, in quanto mamme. L’attenzione spesso morbosa che una coppia di donne subisce rende difficile il coming out sul posto di lavoro e quella dell’invisibilità diventa spesso una scelta obbligata. La madre sociale, quella non biologica nella coppia, da una parte ha tutti quegli oneri conseguenti alla genitorialità che possono incidere negativamente sulla sua carriera, ma dall’altra ma non gode delle agevolazioni previste perché non il suo status di genitrice non viene riconosciuto.
Abbiamo poi le persone transgenere o transgender, che restano le più colpite dalle discriminazioni, a causa dell’impossibilità di nascondere quella rivoluzione estetica necessaria e conseguente all’iter di transizione. Le persone transgenere incontrano barriere all’ingresso del mercato del lavoro, dove vengono scartate ai colloqui di selezione, e mobbing sul posto di lavoro, quando iniziano l’iter in azienda. Complessa e non semplice è poi la gestione di rapporti di lavoro autonomo e nello svolgimento di libere professioni, dove è il rapporto con i clienti a presentare criticità.
In questo senso, l’ultima riforma del sistema lavoro chiamata Jobs act non ha migliorato la situazione. Pur avendo portato alcune evoluzioni sul piano della tutela del lavoro prevedendo, ad esempio, maggiori tutele per la maternità delle lavoratrici autonome e delle iscritte alla Gestione Separata Inps e ampliato la platea dei beneficiari di trattamenti di sostegno al reddito in caso di disoccupazione, questa riforma ha messo in discussione importanti diritti che storicamente si consideravano acquisiti in Italia, legati soprattutto al lavoro a tempo indeterminato in aziende con più di 15 dipendenti e alle tutele previste dallo Statuto dei lavoratori. Il Contratto a Tempo Indeterminato a Tutele Crescenti (CATUC), ha definitivamente sostituito il Contratto a Tempo Indeterminato che conoscevamo da decenni, rendendo di fatto più facile licenziare per un datore di lavoro.
Quindi, se è vero che la tutela dai licenziamenti discriminatori ancora sussiste, è altresì vero che una generale maggiore agibilità ai licenziamenti da parte del datore di lavoro di norma comporta maggiori rischi per quelle categorie più deboli da un punto di vista sociale e culturale, come le donne e le persone LGBT.
Venendo alla domanda che ha aperto questo nostro evento – Cosa può fare un’amministrazione cittadina per fronteggiare le discriminazioni? – come potremmo quindi rispondere?
Senz’altro che un’amministrazione cittadina può fare moltissimo. Ad esempio promuovere una diversa cultura aziendale e organizzativa, formando imprenditori e manager aziendali, promuovendo l’idea che il diversity management non il è fumo negli occhi – come molti imprenditori ancora pensano – ma una politica di gestione del personale che può incrementare la produttività di un’azienda.
Dovremmo seguire l’esempio di città come Londra, Berlino o Barcellona, che hanno politiche di diversity & inclusion molto sviluppate: occorre far sì la giustizia organizzativa divenga strategia organizzativa.
Non si tratta solo di insegnare che discriminare è sbagliato, o che non discriminare ci rende migliori e politicamente corretti, ma anche che scegliere l’inclusione è vantaggioso in termini strategici e di competitività per un’impresa. Si tratta di spiegare che il pregiudizio in ragione dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere delle persone può essere un ostacolo al reclutamento e alla promozione del candidato più qualificato per un lavoro e dei migliori talenti che il mercato offre, eccellenze incluse.
Creare un ambiente di lavoro sereno e adatto a qualunque persona risulta vincente per tutti, anche per i collaboratori maschi, bianchi ed eterosessuali. L’assenza di discriminazioni è produttiva.
Mettere l’etica è al centro è insomma più intelligente, oltre che giusto.
Queste sarebbero delle ottime premesse per far sì che, un domani, qui a Milano, si potrà essere persone gay, lesbiche e transgender dichiarate e ambire a fare carriera anche fino ai massimi vertici. Questa potrebbe essere una grande sfida per la nostra città.
Ho appena appreso della morte di Leslie Feinberg, attivista americano per le battaglie transgender, femministe, lesbiche, operaie, antirazziste.
Ebbi l’onore di conoscerl* ormai più di dieci anni fa, in occasione della presentazione in Italia di “Stone Butch Blues“, libro per me importantissimo, e di trascorrere giornate e momenti che mai dimenticherò in sua compagnia.
Una grande perdita…
RIP Leslie, saremo sempre con te, ora e sempre “in the struggle”, ora e sempre nello spirito di Stonewall.
Sono venuta a contatto con l’elaborazione di Foucault per la prima volta preparando la mia tesi di laurea, che trattava il tema della transessualità come oggetto di discriminazione, nel 2007. Su indicazione della correlatrice della mia tesi, una docente di filosofia politica, ho richiamato il filosofo nell’analisi dei tre momenti che connotano l’esperienza transgenere dal punto di vista sociale: l’oppressione, la riaffermazione della dignità di una realtà marginalizzata e stigmatizzata, ed il riconoscimento.
Nel definire le cause dell’oppressione delle espressioni identitarie trans*, così come di quelle culture che non rientrano nella dicotomia maschile/femminile, ho richiamato quella visione della ragione scientifica moderna che F. definì “sguardo normalizzatore”, che ha portato alla concettualizzazione di alcuni gruppi come diversi, in contrapposizione alla rispettabilità di altri gruppi definiti soggetti neutri, messa in atto dalla cultura scientifica, estetica e morale dell’Ottocento e del primo Novecento.
Questa concettualizzazione ha fatto sì che, a partire dal XIX secolo, nelle società giudaiche, cristiane e islamiche, la naturale “variabilità di genere” dell’essere umano sia stata inquadrata come patologia.
Nell’analisi dei processi di riaffermazione della dignità finalizzata ad un riconoscimento sociale, ho fatto riferimento alla genesi di quello che F. chiama “discorso di rimando” da parte di omosessuali (e transessuali), analizzando come il poter “parlare di sè” abbia permesso alle persone transgender di fare “autocoscienza di gruppo”, scoprendo che “il personale è politico” e sovvertendo gli stereotipi ricevuti.
Questa riflessione è ha trovato molti elementi nell’analisi sei rapporti fra sesso e potere elaborata da F..
“Il potere è dappertutto, non perché inglobi tutto, ma perché viene da ogni dove” ci dice F.. Un potere che esula dalla logica binaria che vede una contrapposizione fra dominanti e dominati, che si esercita attraverso percorsi reticolari, in una dinamica discorsiva chiamata “microfisica del potere“.
Nella prima parte della sua “Storia della sessualità” , “La volontà di sapere“, F. analizza i rapporti fra sesso e potere partendo da una riflessione su come la sessualità sia diventata nei secoli oggetto di sapere, dalla genesi della volontà di sapere.
F. ci mette subito in guardia da quella che lui chiama l'”ipotesi repressiva”, secondo la quale la repressione di cui il sesso è stato oggetto sarebbe l’elemento centrale del rapporto fra sesso e potere, sottolineando come invece, a partire dal 1700, nella cultura occidentale ci sia stata una vera e propria fermentazione discorsiva, un’incitazione ai discorsi sulla sessualità.
“Tutto ciò che ha che ha a che fare col sesso deve passare dalla macina senza fine della parola” ci dice F., secondo il quale la storia della sessualità moderna si forma già con la pastorale cristiana, a partire dalla confessione, definita come dispositivo per produrre discorsi sul sesso (è molto interessante come F. trovi delle analogie con la confessione nella psicoanalisi freudiana, arrivando a parlare di “scienza confessione“).
A partire poi dal 1700, l’incitazione a parlare di sesso viene dallo Stato e il sesso entra in una dimensione pubblica, “lo si scova e lo si obbliga ad un’esistenza discorsiva“.
Nel frattempo la medicina, la psichiatria (con la ricerca di un’eziologia delle malattie mentali), la biologia, la demografia definiranno i nuovi contorni del concetto di “contronatura“, connotando un nuovo popolo di “perversi”: ragazze precoci, bambini troppo svegli, maniaci, zoofili, feticisti, omosessuali e transessuali.
E’ in questo momento che la sodomia smette di essere un comportamento dell’individuo: l’omosessuale diventa personaggio, con una sua fisiologia, anatomia e morfologia.
“La meccanica del potere che dà la caccia a tutto questo universo disparato non pretende di sopprimerlo dandogli una realtà analitica, visibile e permanente: esso lo fa invece entrare nei corpi, insinuarsi dietro i comportamenti, ne fa un principio di classificazione e intelleggibilità. Le sessualità aberranti non vengono escluse, vengono specificate. Di tutto questo la medicalizzazione è l’effetto e lo strumento.“
In questa cornice, l’inizio del 1800 vede una proliferazione dei discorsi su omosessualità, ermafroditismo e transessualità, che da un lato porta ad un aumento del controllo sociale su questi fenomeni, ma dall’altro permette la genesi di quel dircorso di rimando delle persone omosessuali e trans, che iniziando a parlare di sè, metteno in atto quella dinamica discorsiva che poi porterà alla rivendicazione della naturalità e legittimità delle condizioni di omosessuale, transgenere e persona intersessuata.
Con la mia tesi, assumendo come punto di partenza il fatto che identità e culture transgenere esistano da sempre, intendevo evidenziare quale ruolo abbiano avuto l’occidentalizzazione e la modernizzazione nel rendere una patologia psichiatrica quella che in precedenza era stata un opzione identitaria riconosciuta da culture anche millenarie, per poi analizzare quella rivoluzione delle soggettività dalla quale scaturisce una rivoluzione culturale che porterà alla decostruzione del dogma binario maschile/femminile, e devo dire che in questo Foucault mi è stato di grande aiuto.
Non sono una studiosa di filosofia, né un’esperta di Foucault, ma l’idea che mi sono fatta leggendo questo filosofo e facendo riferimento alla sua macchina analitica è che, anche a trent’anni dalla sua morte, la sua “boite à outils”, la scatola di attrezzi, come lui stesso amava definire le sue analisi, resti uno strumento importante per comprendere la nostra attualità, soprattutto in un’ottica LGBT*I.
Una macchina analitica, quella foucaultiana, utile non solo a scrivere tesi di laurea, ma anche a vivere la vita di tutti i giorni, in tempi in cui dobbiamo fronteggiare inquietanti “teorie riparative”, interlocutori che tentano di squalificare le nostre vite definendoci “contronatura”, o una preclusione al diritto all’autodeterminazione (penso alle persone T* e all’istanza di depsichiatrizzazione dei percorsi transgenere).
Identità di genere in Foucault
“Abbiamo bisogno di un vero sesso?”
Foucault inizia con queste parole la sua prefazione alle memorie di Alexina Barbin, più nota come Herculine Barbin, passata alla storia come “pseudoermafrodito”.
In realtà Alexina era una persona intersessuata, affetta da una malformazione ai genitali, alla quale alla nascita fu attribuito il genere femminile.
Più tardi, alla fine della pubertà, dopo un’indagine volta a determinarne il sesso condotta da un medico e da un prete, ad Alexina fu imposto per sentenza il genere maschile, e questo portò la ragazza a suicidarsi.
Il caso di Alexina fu successivamente studiato da Foucault, che scrisse una prefazione al suo memoriale, che ho trovato davvero interessante perchè il filosofo anticipa concetti che oggi troviamo nei vari manifesti per la libertà di genere, così come nelle istanze per la tutela e la promozione del diritto all’identità personale delle persone intersessuate.
“Abbiamo bisogno di un vero sesso?“
Secondo F., nel Medioevo le regole del diritto prevedevano l’esistenza di persone ermafrodite, ed esisteva una giurisprudenza abbondante che stabiliva che fosse prerogativa del padre quella di decidere il sesso del figlio dalle caratteristiche sessuali incerte.
Successivamente, alle soglie dell’età adulta, la persona poteva scegliere a quale genere appartenere, a condizione di mantenerlo per il resto della vita.
A partire dal 1700, le teorie biologiche sulla sessualità rifiutano l’idea di una “mescolanza fra i sessi”: il sesso deve essere uno, e bisogna determinarlo.
Scompare quindi la libera scelta: non è più l’individuo a decidere il genere d’elezione, ma l'”esperto”, che stabilisce una verità sul sesso.
Alexina aveva trascorso la maggior parte della sua esistenza in un convento, in un contesto quindi esclusivamente femminile, dove aveva vissuto anche diversi amori.
“Alexina non era permeata da quel formidabile desiderio di raggiungere l”altro sesso’ che conoscono coloro che si sentono traditi dalla propria anatomia e imprigionati in un’ingiusta identità. Credo che a lei piacesse stare in questo mondo ad un sesso solo, dove c’erano tutte le sue emozioni e tutti i suoi amori, essendo ‘altro’ senza dover essere l”altro sesso.'”.
Il ddl è sottoscritto dai senatori Lo Giudice, Amati, Broglia, D’Adda, Fabbri, Guerra, Idem, Palermo, Ricchiuti e Zanoni.
Prevede, fra l’altro, di eliminare l’obbligo di sterilizzazione e di mutilazione genitale per chi voglia accedere alla riattribuzione anagrafica del sesso prevista dalla legge 164 del 1982, come chiesto di recente dal Parlamento Europeo con la Risoluzione Lunacek e come già anticipato in diverse sentenze dai tribunali italiani.
Continuo a pensare che sarebbe stato più prudente spingere per l’emanazione di una circolare interpretativa che imponga ai giudici un’applicazione meno restrittiva della legge 164/82, che, ricordiamolo, nel suo testo non prevede l’obbligo di intervento sui caratteri sessuali primari della persona in transizione.
Vero è che questa proposta di legge, appena calendarizzata, sancirebbe dei diritti sacrosanti, questo è fuor di dubbio.
Infatti, oltre alla possibilità di rettificazione anagrafica senza interventi sui caratteri primari, indicata esplicitamente, prevede: – il diritto all’autodeterminazione della persona disforica anche se minorenne (se autorizzata da un giudice); – il diritto all’autodeterminazione della persona intersessuata (divieto di interventi di riattribuzione di sesso alla nascita); – la tutela del matrimonio contratto dalla persona in tranzione prima della riattribuzione anagrafica (il matrimonio non si scioglierebbe automaticamente, come invece oggi accade). Ci sono però anche delle criticità, che potrebbero derivare dal fatto che la legge voglia normare e definire un po’ troppo. Conta infatti 14 articoli, contro i 7 della ‘vecchia’ 164/82, e questo potrebbe non essere necessariamente un bene per noi.
Ottavia D’anseille Voza, Responsabile nazionale per i diritti delle persone trans per Arcigay), fa giustamente notare il problema dell’articolo 14 della proposta di legge,
“che escludendo la punibilità per ‘chi modifica, altera o camuffa il proprio aspetto esteriore durante il percorso medico, psicologico e legale al fine dell’attribuzione di un sesso diverso da quello indicato nellatto di nascita’, di fatto confermerebbe tale punibilità per chi modifica il proprio aspetto esteriore all’esterno di tale percorso. Questo articolo di fatto confermerebbe la punibilità per tutte quelle persone, cosiddette ‘gender non conforming’, che non associano al loro percorso identitario alcun intervento medico.”
Ricordiamo che non tutta la realtà transgender passa per un percorso medicalizzato.
Atttenzione anche all’articolo 2, che fa esplicito riferimento alla “relazione psicodiagnostica che attesti una disforia di genere”. In primis, perché non è detto che la definizione ‘disforia di genere’, oggi contemplata nel DSM V, non divenga in tempi brevi obsoleta (ricordiamo che la condizione T*, per quanto ne sappiamo, potrebbe essere addirittura depennata dalla prossima edizione del DSM). In secondo luogo perché potremmo finire per sancire per legge l’obbligatorietà della perizia psicodiagnostica, dando un potere ed una discrezionalità ancora più grandi a psichiatri, psicoterapeuti e osservatori di specialisti sulle nostre vite (e soprattutto sulle vite di chi verrà e transizionerà in futuro).
Io dico sosteniamo l’iter di questa proposta, visto che è stata calendarizzata, ma spingiamo anche per emendarla nei punti che potrebbero rivelarsi un’arma a doppio taglio nella battaglia per il diritto all’autodeterminazione.