La condizione transgender in Italia: la legge 164/82

La condizione transgender in Italia prima dell’approvazione della legge 164/82

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Prima dell’introduzione della suddetta legge era vietato, perché illecito, ogni tipo di intervento di riconversione del sesso. Gli interventi medici che potevano eseguirsi riguardavano esclusivamente persone che presentavano problematiche riconducibili in modo esclusivo all’ermafroditismo (presenza di strutture gonadiche di entrambi i sessi) (Pezzoli, 2006)¹.

In buona sostanza prima della 164/82 chi viveva sulla propria pelle le numerose difficoltà dovute alla condizione transgender non aveva nessun supporto giuridico per intraprendere l’iter di transizione e vedere realizzata la propria esistenza. L’assenza di un riconoscimento civile e giuridico comportava di conseguenza anche l’assenza di diritti civili (Pezzoli, 2006).

Risalgono agli anni Sessanta i primi coming-out transgender² “quando il termine che connotava l’esperienza non esisteva ancora e quindi si era ignorati perché invisibili, quando manifestare tendenze o atteggiamenti non consoni al proprio genere era punito col carcere se non addirittura col manicomio” (Marcasciano, 2002), con la multa per mascheramento (l’articolo 85 del Codice Civile riguardante il mascheramento e le condanne infamanti, legge 27/12/1956, numero 1423.99, art. 3 -12), con l’articolo 1 che, dichiarando le persone transgender “socialmente pericolose” le privava della patente di guida, del diritto di voto ed le inviava al confino ( A.I.T., Associazione Italiana Transessuali). L’esperienza dei decenni precedenti alla legge è quindi segnata dalla repressione perpetrata dalle istituzioni e dalla società stessa ai danni delle persone transgender, che vivevano una condizione estremamente precaria caratterizzata dall’emarginazione e dalla violenza .

Fra le richieste che il Coordinamento della Associazioni Trangender Italiane ha presentato al Ministero Pari Opportunità nel novembre 2006, particolarmente sentita è quella di “azioni di risarcimento (vitalizio ecc.) per tutte le persone che hanno subito, prima della entrata in vigore della L. 164/82, violenza, carcere, prigione, confino, perdita dei diritti di cittadinanza e altre gravi forme di discriminazione da parte dello Stato a causa della loro condizione di transgender ed eventuale risarcimento per i danni fisici e psichici subiti a causa delle persecuzioni” (Crisalide AzioneTrans, 2000).

Note

¹ Sull’immutabilità del sesso e sulla non disponibilità del proprio corpo per questioni riguardanti la psicosessualità della persona, l’orientamento giurisprudenziale era il seguente: “… l’accertamento e documentazione del sesso della persona, effettuata in sede di atto di nascita, ai sensi degli art. 67, 79 e 71 dell’ordinamento dello stato civile (r.d.n. 1238/1939) con esclusivo riguardo agli organi genitali esterni, sono suscettibili di successiva rettificazione…, solo in conseguenza di sopravvenute modificazioni dei caratteri sessuali , per una evoluzione naturale ed obiettiva di una situazione originariamente non ben definita o solo espressamente definita, ancorché ricollegata all’orientamento psichico della persona medesima, o coadiuvata da interventi chirurgici diretti ad evidenziare organi già esistenti, e non anche, pertanto, per il mero riscontro di una psicosessualità contrastante con i chiari caratteri degli organi sessuali, ovvero per interventi chirurgici di tipo manipolatorio o demolitorio, rivolti a mutare la realtà anatomica naturale” (Cass n. 2161 del 03 aprile 1980). L’ordinamento prevedeva che la richiesta di rettificazione degli atti dello stato civile e delle annotazioni potesse essere attivata d’ufficio dal Procuratore della Repubblica solo perché promossa “dall’interesse pubblico”, nonché quelle che riguardavano “… errori materiali di scrittura” (art 165. r.d. 9 luglio 1939 n. 1238), compiuto dal denunciante oppure di compilazione dell’atto da parte dell’ufficiale dello stato civile in sede di dichiarazione di nascita (art. 70 r.d. n.1238/1939). In sintesi questo era il quadro normativo al quale possiamo aggiungere l’art. 5 del codice civile, “Gli atti di disposizione del proprio corpo sono vietati quando cagionino una diminuzione permanente dell’integrità fisica…”.

² L’espressione inglese “coming out” è traducibile in italiano con l’espressione “uscire allo scoperto”. Nell’ambito GLBT tale espressione è usata per indicare la decisione di dichiarare apertamente la propria omosessualità o la propria identità di genere (Arcigay, The Italian Gay Association).

L’iter di approvazione della legge 164/82.

Si presentano qui gli antefatti che hanno preparato il terreno all’approvazione della legge.

La storia del movimento transgender in Italia iniziò ufficialmente nel 1979 a Milano, quando per la prima volta un gruppo di donne mise in atto una protesta in un’affollata piscina pubblica, indossando un costume maschile e restando così a seno nudo, sfidando l’opinione pubblica, l’autorità, ma soprattutto uno Stato che le considerava uomini a tutti gli effetti ( MIT, Movimento Identità Transessuale).

La protesta si estese poi a tutte le principali città italiane, arrivando innanzi alla stessa sede parlamentare con numerose manifestazioni e attirando l’attenzione dei mass media. Queste azioni ebbero vasta eco sui giornali, tanto che non ci fu partito che non fece a gara per schierarsi, per proporre la sua formula per risolvere, o fingere di risolvere, il problema. Ciò fu conseguenza, in verità, di un’abile e fortunata mobilitazione dell’opinione pubblica da parte dell’allora Movimento Italiano Transessuali (MIT), che ottenne vaste adesioni nel mondo della cultura, del’opinione e dello spettacolo. Attorno al Mit si coagulò un vasto e composito movimento spontaneo, organizzato dal Partito Radicale, che formulò una strategia per far sì che anche in Italia si arrivasse ad una legge analoga a quella approvata in quegli anni in Germania ¹ (di s.).

In sede parlamentare il confronto fu rovente e vide contrapporsi ai parlamentari sostenitori del Mit i rappresentanti di un unico gruppo politico contrario all’approvazione del disegno di legge, gruppo disomogeneo al suo interno, “rigidamente arroccato in difesa di posizioni ideologiche annunciate come irrinunciabili ed ammantate di apparente rigore etico e scientifico” (di s.).

Il disegno di legge dapprima passò al vaglio della “Commissione Parlamentare Giustizia”, ma, a causa dell’opposizione, fu approvato a semplice maggioranza e sottoposto alle assemblee parlamentari in sede deliberante e discusso pubblicamente. Infine, come in genere avviene, si giunse ad una soluzione compromissoria (di s.). Il testo della legge 14 aprile 1982 n 164 fu quindi in realtà una soluzione di compromesso, e, a seconda del punto di vista, si ha tuttora l’illusione che venissero soddisfatte le istanze di entrambi gli schieramenti.

Quando il Mit chiese ragione ai suoi sostenitori parlamentari del perchè non si fosse fosse arrivati ad approvare una legge analoga a quella tedesca, che veniva riconosciuta come la soluzione più adeguata al problema, venne risposto che quanto approvato era il compromesso massimo che gli oppositori erano disposti a concedere per cui o ci si accontentava di quanto concordato o l’intero accordo sarebbe decaduto (Nardacchione, 2000).

Venne così realizzata una legge che può essere letta in chiave solo apparentemente libertaria” (Nardacchione, 2000).

Note

1 Il riferimento più chiaro e più stimolante in quegli anni era infatti quello della legge tedesca (Legge 10 settembre 1980, I, nr 1654). Questa legge prevede un percorso in due tappe, definite tecnicamente “soluzioni” (“Losung”).

La prima, la “piccola soluzione”, comporta, in maniera del tutto svincolata da interventi chirurgici ed attraverso semplici meccanismi di tipo amministrativo, la riattribuzione di un nome confacente alle aspettative della persona, ma non al suo sesso anagrafico.

La seconda, la “grande soluzione”, è una facoltativa estensione della prima, è vincolata all’intervento ricostruttivo dei genitali e comporta la riattribuzione sia del nome che del sesso anagrafico. Il Mit si preparò quindi ad un confronto con il parlamento con la consapevolezza di quale avrebbe dovuto essere l’obiettivo di massima verso cui puntare (Nardacchione, 2000)

L’applicazione della legge. Un’analisi critica.

Il movimento italiano per i diritti delle persone transgender unanimemente ritiene necessarie delle modifiche alla legge 164, considerando quest’ultima come espressione dei preconcetti consolidati nel tessuto sociale e dell’atteggiamento di rifiuto della società stessa verso la propria condizione.

Da un’analisi critica della legge emerge infatti che tale normativa non sembra aver mai risposto alla effettiva realtà del fenomeno dimostrando di rivolgersi esclusivamente ad una parte delle persone interessate, cioè quelle che già si erano sottoposte all’intervento chirurgico, esprimendo una natura di tipo sanatorio, o a quelle che erano ben determinate ad affrontarlo, accontentandosi di regolarizzarne la posizione sociale senza approfondire la conoscenza e senza ampliare la disciplina anche ad altre esigenze non meno legittime. Una volta individuati i limiti della legge è facile capire che l’atteggiamento che emerge non è altro che quello di affrontare una problematica di riconoscimento di un diritto alla libertà individuale, come fosse invece una minaccia per l’ordine pubblico.

E’ così chiaro che il fine che la legge si propone corrisponde in realtà al reinserimento coatto di ogni forma di differenza rispetto all’identità di genere all’interno del binomio uomo-donna, tendendo così ad esprimere più un indirizzo di tipo curativo-reintegrativo piuttosto che riconoscere ufficialmente la figura del/della transgender come soggetto di diritti. In tal modo la volontà individuale della persona viene calpestata, non essendo compatibile con il concetto di normalità che la legge sembra presupporre; una normalità su cui grava un giudizio di idoneità fondato più su requisiti fisico-sessuali che psichici.

Quindi la legge, subordinando quest’ultimo all’effettivo cambiamento fisico, rende l’intervento chirurgico un “obolo cruento” (Nardacchione, 2000) da pagare come unica alternativa ad una morte civile certa, ponendo quello che dovrebbe essere l’oggetto di tutela (la volontà e la psiche della persona) in una situazione di vaglio obbligato e discrezionale, da parte dell’apparato giudiziario (giudice istruttore, pubblico ministero, consulente tecnico), ai fini di un riconoscimento che è, dal punto di vista della Costituzione stessa, un diritto inviolabile di ogni cittadino.

La situazione attuale della legge 164 fa sì che questi stessi diritti, in particolare il diritto alla salute (art. 32 Cost.), vengano mutati in obblighi. Quello che è uno strumento per affermare delle libertà individuali come il diritto alla salute diventa una forma di coercizione: si impone alla persona una “salute” che è, in realtà, nient’altro che un’ apparenza esteriore conforme ai canoni correnti, quando il diritto alla salute dovrebbe poter esprimersi anche nel diritto a rifiutare cure obbligatorie. L’insufficienza e l’inadeguatezza della legge 164 di fronte alla materia dei diritti della persona transgender si ritrova quindi, come è stato più volte puntualizzato dagli studi di Nicola Coco (Marchiori – Coco, 1992), avvocato e giurista, in questi aspetti: 1 – nel fine marcatamente di “ordine pubblico” che si propone; 2 – nell’eccessivo potere decisionale del giudice; 3 – nella presenza obbligatoria del pubblico ministero; 4 – nella lesione della libertà individuale per mezzo di una frustrante perizia psichiatrica, del tutto contrastante con la volontà della persona; 5 – nel passaggio obbligato, ai fini del riconoscimento di uno status giuridico, dell’intervento chirurgico irreversibile.

In tal modo le applicazioni della legge 164 non consentono di tutelare né la salute fisica e psichica degli interessati, né la volontà di questi. Qualsiasi proposito di miglioramento della normativa non può non tenere conto di queste gravi carenze.

Le storiche sentenze della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale: un punto di svolta nella prassi giurisprudenziale

Solo recentemente, con la sentenze della Corte di Cassazione n. 15138/2015 e della Corte Costituzionale n. 221, i tribunali italiani hanno iniziato a cambiare orientamento, concedendo la rettificazione di sesso anche a persone in transizione che hanno rifiutato l’intervento demolitivo agli organi genitali, mettendo in discussione una prassi giurisprudenziale trentennale. Il movimento transgender ha accolto queste sentenze come una grande e significativa vittoria nella battaglia per i diritti.

Non va tuttavia dimenticato che quello alla piena autodeterminazione non è ancora, per le persone transgender italiane, un diritto garantito e sancito per legge: un orientamento giurisprudenziale non è nei fatti vincolante per tutti i giudici e i tribunali come lo sarebbe invece una legge.

Siamo ancora quindi ben lontani da un corpus legislativo in grado di garantire e promuovere il diritto alla libertà di genere e alla piena autodeterminazione, come invece è accaduto, ad esempio, a Malta, in Argentina o in Danimarca, paesi che vantano legislazioni molto avanzate in materia, che non prevedono interventi chirurgici o trattamenti medici obbligatori e non desiderati dalla persona, certificazioni mediche psichiatriche e terapie psicologiche coatte, competenza dei tribunali in  materia.

Bibliografia

    • ARCIGAY. THE ITALIAN GAY ASSOCIATION, Sito web, Bologna. Disponibile all’indirizzo: http://www.arcigay.it/
    • NARDACCHIONE D., Transessualismo e Transgender. Superando gli stereotipi, Il Dito e la Luna, Milano, 2000
  • PEZZOLI F., Legge 14 aprile 1982 n. 164. Transessualismo. Teoria e prassi., Crisalide AzioneTrans onlus, Livorno, 2006.

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